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Flavio Ermini. Il giardino conteso 
La recensione di Alberto Folin su “Poesia 323” (Crocetti)
04 Marzo 2017
 

Flavio Ermini

Il giardino conteso

Moretti & Vitali, 2016, pp. 234, € 18,00

 

Il giardino conteso è forse il libro più “filosofico” di Flavio Ermini. Non che le sue precedenti, numerosissime, opere di saggistica, da Liberare la vita (2001) a Il moto apparente del sole (2006), da Antiterra (2006) a Rilke e la natura dell'oscurità (2015), non siano intrise di quel tipico interrogare della filosofia contemporanea che trova la sua forma essenziale nell'analogia e nel suo racconto. Ma l'aspetto peculiare di questo libro mi sembra sia una più accentuata tendenza alla necessità di dare una scansione tematica all'interrogazione, che possa costituirsi come “cammino” verso un approdo (per quanto provvisorio esso sia). Le parole-chiave di cui è intessuta la scrittura di Ermini ruotano attorno al tema dell'origine di ciò che sta prima dell'origine e del suo apparire. Non-luogo archetipico di un abisso sfuggente, che si annuncia nelle pieghe di una lingua aurorale altra rispetto alla lingua logora della “chiacchiera” che nulla dice dell'essenza, risolvendosi per lo più nell'illusorea indicazione dell'ente. Sono parole di un percorso iniziatico e per molti versi esoterico. In questo libro, sottotitolato L'essere e l'ingannevole apparire, sembra che Ermini senta l'urgenza di dare un ordine al suo meditare teoretico e poetico assieme, secondo un percorso scandito da cinque tappe “filosofiche” coronate da un approdo “poetico” che si costituisce come sesta parte. Il racconto si svolge secondo un intreccio che è tracciato dall'autore in un sintetico Orientamento, posto tra una Premessa (L'antistoria) e il libro vero e proprio (ogni capitolo è delimitato da un'Avvertenza e da un Excursus): 1) la natura dell'apparire (caducità); 2) le realtà singolare delle cose (qui l'illusorietà non viene legata alla percezione soggettiva, ma si costituisce come “cosa” a sé stante, alla maniera di Leopardi); 3) il cammino dell'errore (e dell'errare, per giungere “in prossimità di qualcosa di atemporale e incorruttibile come l'essere parmenideo”); 4) il risveglio (“imparare a vivere dopo il risveglio dalle illusioni”: qui appare lafigura del “deserto” di Leopardi, Nietzsche, Heidegger – ma non-detta potrebbe essere l'immagine del deserto di Jabès); 5) trovare la parola che dica il vero dell'essere; 6) il “giardino conteso”, l'ultimo capitolo, metamorfizza il linguaggio che, da discorsivo, diventa poetico, facendo della poesia non più l'oggetto di una contesa concettuale, ma viva esperienza di verità. Libro quanto mai intenso che, per sintetizzare, farei corrispondere ad un aggiornamento del mito della caverna narrato da Platone nel VII libro della Repubblica: che accade dopo la rottura delle catene, quando lo schiavo, presa coscienza dell'illusorietà delle ombre, si affaccia sulla soglia, di fronte al fuoco, e inizia il cammino verso il mondo vero. Libro, anche, quanto mai antinietzschiano, dal momento che per Nietzsche l'apparire non è affatto ingannevole: è proprio il mondo vero ad esserlo. Com'è noto, infatti, è da qui che prenderebbe origine il cosiddetto nichilismo europeo.

 

Alberto Folin

(da Poesia, Febbraio 2017, N. 323)


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