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Andrea Gratton. Di Michel Houellebecq e di “Sottomissione”
25 Gennaio 2015
 

Iniziai a leggere Houellebecq a Venezia, il penultimo anno di università. Avevo da poco finito la lettura di tutti i volumi della Recherche di Marcel Proust: l’edizione dei Meridiani Mondadori, per intenderci. Tomi ampi e voluminosi che infilavo nella tracolla e che sfogliavo nel tragitto quotidiano che, in vaporetto, collegava il Lido alle Zattere. A volte capitava rifiutassi inviti a uscite serali per leggere Proust. In quell’anno credo di aver passato più serate immerso nel magico mondo di Swann o dei Guermantes che in peregrinazioni tra bacari e osterie veneziane. A conti fatti, «non avrei avuto niente da rimpiangere».

Houellebecq arrivò subito dopo Proust. Quasi per caso. Ne avevo sentito parlare distrattamente da un professore di letterature comparate durante una delle lezioni mattutine. Citava Houellebecq in quanto autore di un importante saggio su H. P. Lovecraft, scrittore che considerava tanto sottovalutato quanto indispensabile. Scartando di lato Lovecraft (e approfittando della biblioteca delle Zattere) riversai la mia curiosità su Houellebecq e, da poco terminata l’ultima pagina del Tempo ritrovato, iniziai a leggere Le particelle elementari. Con Houellebecq iniziò a ripetersi la medesima trafila portata avanti con Proust: leggevo in vaporetto, testa china sul libro, pressoché incurante di chi mi stava accanto. Essendo un volume ben più esile, leggevo anche camminando, nel tragitto che dalle Zattere porta a San Sebastiano. A volte, quando ero in anticipo rispetto alla lezione, mi fermavo in una sede distaccata dell’università. Prendevo un terribile caffè al distributore automatico e me ne stavo seduto su una sedia di plastica rossa a leggere Houellebecq. Nelle settimane che passai seduto su quella sedia di plastica rossa a bere caffè e leggere Houellebecq non incrociai mai nessuno studente. Né alcun inserviente mi chiese mai cosa diavolo ci facessi lì. Entravo, bevevo il mio caffè, leggevo Houellebecq il tempo necessario per arrivare puntuale a lezione, andavo nei bagni pubblici, salutavo e uscivo. Ripensandoci tutto ciò aveva un che di assurdo.

Nel corso della lettura delle “Particelle elementari” ripresero le crisi d’ansia, che continuarono con il passaggio a Le possibilità di un’isola. Il mondo che dipingeva Houellebecq era un mondo così asettico, scandito da leggi tanto meccanicistiche quanto brutali, che a stento riuscivo a liberarmi da quella cappa di angoscia esistenziale che mi dipingeva addosso. Il mondo di Houellebecq, il nostro mondo, era un mondo dove i rapporti umani andavano sgretolandosi, perdendo inesorabilmente senso. Era un mondo dominato non tanto dal denaro in sé, bensì dalla follia del potere. Dalla presenza di una specie di “macchina annichilente a moto perpetuo” che, innescata dal capitalismo e dal consumismo, distruggeva con lucida follia tutto ciò che gli si parava dinnanzi. Pronta a donare quel «buio freddo e autistico» di cui parlerà Cormac McCarthy ne La strada. Il mondo di Houellebecq era il mondo di una sessualità esercitata da corpi privi di emozioni. Il mondo dominato non tanto dal “male di vivere”, quanto più caratterizzato da una condizione di depressione costante. Una sorta di insensatezza dell’esistenza di cui la maggior parte dei personaggi aveva piena consapevolezza. I personaggi dei romanzi di Houellebecq, infatti, non sono mai né degli eroi, né degli antieroi. Non compiono azioni clamorose per riscattare la loro vita, né la infangano con turpitudini varie. Ogni grande “creazione” compiuta (le scoperte scientifiche di Michel Djerzinski in Le particelle elementari, le opere artistiche di Jed Martin in La carta e il territorio) sembra essere guidata da una sorta di “indifferenza” alle reazioni esterne. Si seguono percorsi intimi e personali che non hanno nulla a che vedere con le categorie morali, piuttosto con quelle intellettuali. Houellebecq non giudica il mondo in cui vivono i suoi personaggi, piuttosto si limita a descriverlo. In un modo che appare caustico e provocatorio soltanto a chi non ha la scorza di guardare al di sotto della realtà dei fatti. Di superare l’“orizzonte degli eventi” della società occidentale.

Credo fosse proprio quest’aspetto alla base delle crisi d’ansia che provavo nel leggere Houellebecq. Il fatto che l’assurdità del mondo e delle relazioni interpersonali mi venisse spiattellata in un modo così diretto (e, oserei dire, assodato) finiva con il lasciarmi senza parole. Schiacciato, quasi, da una verità più grande di me con cui faticavo a fare i conti. Una verità che Houellebecq non si limitava a descrivere con occhi da entomologo, bensì a preconizzare nelle sue derive più folli. Ecco, quindi, venire alla luce uno degli aspetti più significativi di Houellebecq, ovvero la sua capacità di “prevedere” la direzione della deriva della società occidentale. Ne L’Eternauta, un famosissimo fumetto di fantascienza (anche se mai categoria fu più riduttiva per un’opera del genere) creato dallo scrittore argentino Héctor Oesterheld, uno dei personaggi, interrogato sul perché fosse già preparato a un’invasione aliena, risponde «leggo molto. Soprattutto racconti di fantascienza. Mi hanno aiutato subito a capire di che si trattava». Così come la neve mortale del fumetto, era già tutto nell’aria. Quasi a confermare come i numerosi segni del disfacimento fossero ampiamente disseminati nella società medesima attraverso la ricezione letteraria. A qualsiasi domanda sulle sue capacità di previsione, Houellebecq potrebbe tranquillamente rispondere come quel personaggio de L’Eternauta. Con l’aggiunta, però, di una visione “poetica” di tale capacità. Ovvero una visione incentrata su una resa non tanto “naturalistica”, bensì basata su assonanze e ricorsività (di topoi e di linguaggi) volte a inculcare nel lettore quelle evidenze tanto banali quanto palesi per lo scrittore medesimo.

Se nei primi romanzi (Estensione del dominio della lotta, Le particelle elementari, Piattaforma e La possibilità di un’isola) Houellebecq sembra giocare con la voglia di creare scandalo, tanto a parole (si vedano le numerose interviste) quanto con lo spingere al massimo i concetti di cui sopra, è forse con La carta e il territorio che lo scrittore pare riconciliarsi con il ruolo del “provocatore” a tutti i costi, scegliendone uno che sembra essergli ben più congeniale: quello del disparu, ovvero dello scomparso. Non che sia mai stato un gran presenzialista, ma con La carta e il territorio Houellebecq decide di ritirarsi al limitare della società (intellettuale e non solo) francese, scomparendo anche fisicamente per un breve periodo senza dare alcun preavviso al suo manager e ai suoi agenti editoriali. Houellebecq disparu, come la proustiana Albertine. Houellebecq che appare, però, nelle pagine stesse del suo romanzo in veste di scrittore misantropo. Scrittore che, in crisi sociale e creativa, aiuta il protagonista principale Jed Martin a dare vita a un progetto artistico che sarà poi alla base del suo crescente successo. Con un non banale gusto del macabro, Houellebecq si farà uccidere nelle sue stesse pagine. Una morte tanto brutale quanto insensata. Aggettivi non troppo diversi da quelli che sembra riservare per la vita medesima.

La carta e il territorio uscì a cinque anni di distanza da La possibilità di un’isola. Lo attendevo con ansia, come mi accade solo con i libri di autori che hanno saputo toccare corde profonde della mia intimità. La mia vita era cambiata di molto, e il tragitto in vaporetto dal Lido alle Zattere era più o meno un ricordo di gioventù. Un po’ come l’università. Un po’ come la lettura di Proust. Proust, appunto: se vi è uno scrittore ossimoricamente “vicino&lontano” a Houellebecq, questi è proprio Proust. Eppure le similitudini tra i due sono molto più numerose di quanto si possa immaginare. Anche se dubito che Houellebecq giungerebbe mai a immaginare un’affermazione del genere. Così come Proust ne la Recherche, però, anche Houellebecq si trova a descrivere il crollo di una società. Se in Proust l’argomento di riflessione era il disfacimento della nobiltà francese e l’insediarsi di una nuova alta borghesia di parvenu (classe sociale che uscirà “vincitrice” dalla seconda guerra mondiale, aprendo poi la strada a quelli che saranno i loro figli: i baby boomer), in Houellebecq la discussione si sposta prontamente sui figli di quei baby boomer di cui sopra. Figli cresciuti con il mito consumistico di una crescita sfrenata e di una liberazione sessuale oramai compiuta, i quali si trovano a combattere con la frustrazione conseguente all’impossibilità di assicurarsi ciò che sembrava esser stato loro promesso. Ecco, quindi, la crisi nel suo senso più ampio e globale. Crisi politica, crisi dei valori, crisi della società, crisi sessuale/sentimentale, crisi economica, crisi religiosa. Dopo aver pennellato con rabbia romanzi capaci di illustrare al mondo intero le multiformi vie della crisi, con La carta e il territorio Houellebecq decide di abbandonare i toni apocalittici per concentrarsi non tanto sulla possibilità di una salvezza (per Houellebecq non vi è nulla di più assurdo del concetto di “speranza”), bensì sulla presa di coscienza che solo un cambiamento radicale e un ritorno alle origini (il territorio) può arrestare, seppur in maniera parziale, tale deriva. Per non correre il rischio di passare per il “solito” provocatore arrogante, Houellebecq si fa massacrare nel romanzo, lasciando così che siano i lettori a trarre le loro conclusioni, seguendo l’ultima, magnifica, creazione artistica di Jed Martin. Nel 2010 La carta e il territorio ottiene il premio Goncourt. La scomparsa di Michel Houellebecq ha dato i frutti sperati.

Siamo nel 2015, ed esce Sottomissione, ultimo romanzo dello scrittore di Réunion. Molte cose sono cambiate in questi cinque anni. Tanto in Houellebecq quanto nella società occidentale. Non sto parlando di “scontro di civiltà”, bensì di una deriva sociale che lo scrittore francese aveva iniziato a descrivere un paio di decenni prima. Le cose hanno seguito il corso tracciato da Houellebecq e, se è possibile, sono riuscite a esondarlo. Arriviamo, così, all’arcinota vignetta dedicata dal settimanale satirico francese Charlie Hebdo a Houellebecq. Ultima vignetta prima del sanguinoso attacco alla redazione di CH ad opera di una cellula terroristica di fondamentalisti islamici. Nella vignetta Houellebecq non viene ritratto nell’atto di dileggiare l’Islam (cosa che non farà nemmeno nell’intervista contenuta nel settimanale), bensì in quello di “mago” intento a strampalate previsioni. La prima è sulla prossima caduta dei suoi denti (conoscendo il numero di sigarette fumate e di bicchieri di vino ingurgitati da Houellebecq, la caduta dei denti è una previsione de poco), mentre la seconda parla di una sua conversione all’Islam, chiaro riferimento al suo ultimo romanzo. In definitiva nulla di clamoroso nei confronti del Profeta, né dei suoi seguaci.

Gravava (e grava), però, su Houellebecq l’anatema di “islamofobo” in seguito a una dichiarazione del 2001 in cui definiva l’Islam come «la religione più stupida». Dichiarazione su cui Houellebecq ritornerà successivamente e che, pur non disconoscendone la paternità, cercherà di collegare a un discorso di critica nei confronti delle religioni ben più ampio e diffuso. L’anatema, tuttavia, è bello che appiccicato a Houellebecq e il fatto che Sottomissione parli di un futuro in cui la Francia verrà guidata da un presidente di religione musulmana (tale Mohammed Ben Abbes) ha fatto ipotizzare numerosi commentatori che, anche questa volta, Houellebecq ci sarebbe andato giù pesante. Mai errore fu più grossolano. Houellebecq si era già scagliato contro gli attentati terroristici nelle pagine finali di Piattaforma (2001). Pagine in cui descriveva un attentato di matrice religiosa volto a colpire un resort turistico tailandese in cui, oltre ai vari benefit, si offrivano prestazioni sessuali per mettere a proprio agio la clientela. Se la ripetizione stilistica e concettuale (notare il ritorno delle tematiche della sessualità svuotata di sentimento, della commercializzazione dei corpi, della critica alla cecità religiosa) è parte integrante della scrittura di Houellebecq, di certo non lo è la ripetizione di soluzioni narrative. Aspettarsi una scelta così scontata significava non conoscere né Houellebecq, né la sua scrittura.

Sottomissione è forse il romanzo più divertente di Houellebecq. Aggettivo che difficilmente avrei pensato di avvicinare allo scrittore francese. In Sottomissione, infatti, Houellebecq sembra diluire progressivamente l’aura nichilista che lo aveva accompagnato (secondo stilemi più o meno accesi) nel corso dei romanzi precedenti per “liquefarsi” in un finale tanto sarcastico quanto critico. Se nella parte iniziale del romanzo può essere ancora riscontrato il tipico gusto di Houellebecq per quelle figure umane “indifferenti” al vitalismo eroico (il protagonista, François, è un professore universitario studioso di Huysmans che, vivendo in parallelo il declino del corpo e l’assenza di legami sentimentali e di desiderio, medita spesso sull’insensatezza della vita e sull’opportunità di porvi fine) è nella parte finale che la deriva “sarcastico-paradossale” prende il sopravvento. Impossibilitato a trovare nella vacua “mollezza” della religione cristiana («Nietzsche, con il suo fiuto da vecchia bagascia, aveva visto giusto: in fondo, il cristianesimo era una religione femminile») una soluzione ai suoi problemi, il protagonista di Sottomissione si lascerà convertire all’Islam, attratto dalle prebende (economiche, culturali, sociali, sessuali e, non ultime, spirituali) che tale religione sembra riservargli. Compiendo, in un certo senso, il medesimo passo del suo “mito” Huysmans. Il quale, a 44 anni, abbracciò la fede cattolica. Il percorso di François, invece, lo porterà all’Islam.

La struttura “intima” del romanzo (la conversione di François) si snoda attorno alla struttura “fantapolitica” (ovvero la descrizione, dettagliata e credibile, di come Mohammed Ben Abbes sia riuscito a salire all’Eliseo) creando una sorta di contrasto immaginifico in cui la riflessione sulla società occidentale e sul suo crollo giocano un ruolo fondamentale. Più che l’apocalittica visione di McCarthy o quella decadente di Proust, qui non sembra fuori luogo citare lo sguardo del britannico J. G. Ballard (soprattutto per quanto concerne gli ultimi romanzi) o la concezione storicistica di Denys Arcand nel suo Le invasioni barbariche. Anche ponendo delle similitudini, però, lo stile di Houellebecq è così pienamente personale che Sottomissione si rivela come una sorta di unicum tanto nella carriera dello scrittore, quanto nel panorama letterario francese. Soprattutto, Sottomissione si rivela essere un romanzo tutt’altro che “islamofobo”, visto che a uscirne con le ossa rotte è sostanzialmente la religione cattolica: troppo “morbida” (se non connivente) per arrestare il declino morale ed economico di cui è vittima l’occidente intero. L’Islam si configura piuttosto come una risposta “concreta” a cui il protagonista di Sottomissione guarderà per riempire le diverse falle della propria esistenza. Decidendo che una sottomissione “illuminata” è preferibile a un lento, ma inesorabile, declino. In fin dei conti anche le invasioni barbariche del II-V secolo portarono alla fine di un sistema ormai incancrenito. Dalla ceneri di quel sistema nacque il Medioevo.

Leggendo Sottomissione ho ripensato alle circostanze della mia vita segnate dalla lettura di Houellebecq. Molte cose sono cambiate da quei tragitti in vaporetto vecchi di quasi un decennio. Sono cambiate non soltanto in (e attorno a) me, bensì nella società in cui vivo e, allargando lo spettro di indagine, nel mondo di cui faccio parte. Se da un lato ho avuto la precisa sensazione del tempo trascorso, dall’altro mi sono sentito rincuorato di come la capacità di lettura del reale di Houellebecq si accompagnasse non tanto all’evoluzione del mio gusto, bensì all’atteggiamento che riservo di fronte ai continui e traumatici sconvolgimenti del reale. Il Michel Houellebecq nichilista e cinico degli esordi, quello che con la sua prosa mi inchiodava a quella sedia di plastica rossa in preda all’ansia, ha saputo trasformarsi in un autore capace di usare il tono dell’ironia per farsi beffa, attraverso i grandi temi della satira, di una società oramai al collasso. Là dove i romanzi precedenti si concludevano privi di speranza o riscatto o esortazione vitalistica, Sottomissione si conclude con la negazione del rimpianto. Con la possibilità di una nuova esistenza diversa da quella precedente ma, in un certo senso, precipuamente legata alle ceneri della stessa. Sembra, nelle pagine finali, di vedere fisicamente scrivere l’Houellebecq ritratto da Guillaume Nicloux nel film del 2004 L'Enlèvement de Michel Houellebecq (“Il rapimento di Michel Houellebecq”). Un Houellebecq stralunato, ma lucido. Attento all’osservazione del reale quanto al culto delle piccole miserie quotidiane. Interessato maggiormente ad avere il bicchiere di vino sempre pieno (Ribera del Duero, se possibile) e la sigaretta perennemente in mano.

Un Houellebecq che ha ben poco a che vedere con un possibile ideologo per uno scontro di civiltà.

Un Houellebecq che si avvicina piuttosto a quel mago ritratto dalla copertina di Charlie Hebdo (rispetto ai cui contenuti, per altro, non era poi così affine). Un mago intento a fare previsioni che finiscono inevitabilmente con l’avverarsi.

Previsioni dettate da quella visione del mondo ben descritta dal personaggio de L’Eternauta secondo cui aver letto molto l’aveva aiutato a capire subito di che si trattava. In sostanza, come la neve tossica del fumetto, era già tutto nell’aria.

Nelle pagine finali di Piattaforma (2001), il preconizzatore Houellebecq scriverà che, a seguito della scoperta che gli attentati terroristici erano motivati dall’abiezione verso il turismo sessuale praticato nel resort tailandese, l’opinione pubblica occidentale ritenne che «in tali circostanze la reazione dei musulmani era perfettamente comprensibile».

Qualcosa non troppo diverso dalla reazione di molti, troppi, maître à penser dopo l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo.

Una volta ancora era già tutto nell’aria.

Aria di Houellebecq.

 

Andrea Gratton


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