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Nonviolenza. «Io sono pieno di se e ma...» 
Diana Napoli intervista Daniele Lugli (Parte seconda e conclusiva)
11 Gennaio 2008
 

Diana Napoli: Ti piace Benjamin?

Daniele Lugli: Lo amo.

Ecco, benissimo allora. Provo a dirti una cosa con la seconda delle sue Tesi di filosofia della storia, quella in cui parla del sentirsi attesi sulla terra, della debole forza messianica cui avremmo diritto (come soggetti e come futuri oggetti) per il solo fatto d'esser nati. Io ho l'impressione che di questa forza messianica, pur debole, noi, la mia generazione, non sia stata “dotata”... non so se mi spiego.

Questa è una responsabilità seria della generazione che vi ha preceduto...

Per questo prima citavo Hannah Arendt e i suoi saggi. È come la sensazione di non avere niente nemmeno da redimere. Anche solo per il paradossale fatto che qualcuno non sgombera il campo e redime ancora per me.

Forse è una sensazione che è più diffusa di quel che sembra (o forse no), ma è già successo questo, ad esempio, in parte, nell'esistenzialismo, con l'idea di essere gettato. E da questo punto di vista Capitini ne ha di cose da dire. Non è un caso che lui sia stato uno dei più attenti studiosi di Michelstaedter, autore de La persuasione e la rettorica, una straordinaria tesi di greco. Michelstaedter consegna la sua tesi e poi si suicida. Persuaso! Questo per dire che ci possono essere dei motivi di aggancio al pensiero capitiniano rispetto a questi temi... ad esempio tutti sappiamo che grande pensatore è il signor Leopardi, ma chi legge Leopardi come pensatore? Timpanaro, che ne fa uno dei più grandi pensatori materialisti. Capitini aveva una straordinaria considerazione di Leopardi nel suo pensiero sulla natura, convinto che siamo in un mondo che non è veramente benigno e nemmeno è lì per noi. La terra come Gaia. Tutto il “gaismo”, ad esempio, è estraneo al pensiero di Capitini, che diceva: «l'acqua passa con la stessa indifferenza sul sasso e sul volto della bimba annegata».

Eppure, nonostante ciò, noi non abbiamo il diritto di protestare perché noi anche uccidiamo, noi diamo la morte ecc. Questo per dire che quello capitiniano può essere un pensiero per coloro che dicono: “questo è quello che ci siamo ritrovati, non ci han dato le istruzioni per l'uso, non è chiaro se dobbiamo farla finita o continuarla con questa vicenda”. In questo tipo di interrogativi un orientamento alla nonviolenza non farebbe male e secondo me è possibile.

Secondo te, tutta questa intransigenza che a volte oggi si utilizza nell'intendere e nel comunicare (magari anche nel tentativo di difendere) la nonviolenza, fa bene o no? Dire, per esempio, che la nonviolenza è una teoria o attitudine o quant'altro definita in un certo modo preciso per cui per chi deroga non ci sono scusanti?

Io penso che la persuasione personale, che può anche muoversi su un piano di intransigenza per quel che riguarda i propri comportamenti, sia una cosa importante e giusta; non comprendo l'intransigenza se diventa un modo di giudicare il comportamento degli altri e dire qual è l'ortodossia nonviolenta da tenere in situazioni nelle quali non si è. Posso capire le motivazioni e le preoccupazioni che muovono le persone, ma penso che non esistano delle fatwe nonviolente. Esiste una necessità certa del dare giudizi, perché volere, pensare e giudicare sono cose che devono essere collegate tra di loro, ma l'intransigenza dei giudizi che non tiene conto delle situazioni non la ritengo sensata. Ogni volta va valutato il contesto, chi sta facendo che cosa, con quali responsabilità, rispetto a che: quindi, che sia questo il metro. Rispetto a temi come la guerra senza se e senza ma, innanzitutto su un piano più generale io ritengo che il dire “senza se e senza ma” non mi piace: io sono pieno di se e ma e non saprei fare senza.

Poi magari si rischia di dire un contenuto nobile ma di renderlo superficiale se non si considerano gli aspetti della relazione, tutto quello che si diceva prima insomma.

Allora, Capitini diceva che bisogna essere duri come le pietre contro la guerra; e io penso: prima della guerra ogni e qualsiasi strada va tentata, se resta solo la guerra non farla. Questa è però una scelta che le persone fanno rispetto alla guerra ciascuno ai livelli vari di responsabilità in cui si trova. Ciascuno fa in modo che questa cosa non avvenga, non è semplicemente un modo per arrivare a dire “la guerra la stanno facendo degli altri, io non la faccio e sono comunque contro a prescindere”. È nei livelli di responsabilità che a ciascuno sono dati che è necessario fare tutto il possibile perché questo non avvenga, questo è quello che la nonviolenza ci dice. E ciascuno è tanto più amico della nonviolenza quanto più si riesce ad avvicinare a questo obiettivo. Inoltre, per quello che vedo io, la nonviolenza si cura anche dell'efficacia di quello che fa ed è convinta anche dell'efficacia a lungo termine, o almeno, nei termini miei, è convinta dell'inefficacia in termini già brevi della violenza per cui, in modo faticoso, si trova la strada della nonviolenza, con mille dubbi, sapendo che quello che si fa lascerà scoperti dei campi.

Ad esempio, dire che non dobbiamo stare in Afghanistan non vuol dire non ci interessa di quello che succede lì alle donne afgane, ma vuol dire capire di cosa sto parlando, in che modo ho portato lì la guerra e ne sono complice, in che modo, visto che ci sono, ne esco facendo il meno male possibile. Non è una questione di mani pulite. La nonviolenza che apprezzo e conosco io è una nonviolenza che cerca di fare delle cose per quanto e come ne è capace o di non farle se non è capace, ma certamente non è che, nell'impotenza di non poter fare, trancia dei giudizi su chi fa. La nonviolenza è il rovescio del dogmatismo.

A proposito del dogmatismo, questo significa anche che la nonviolenza non dovrebbe essere usata come un dogma attraverso cui rileggere la storia. Mi spiego, questa è una questione che a volte mi infastidisce, quando si critica o si prendono delle posizioni rispetto a quello che è accaduto nella storia (ammesso che siano, queste, operazioni plausibili) e che non risponde al dogma della nonviolenza. Ho sentito anche parlare di Resistenza in questi termini e non riesco a condividere.

Io trovo che lo scrupolo di tornare sulle vicende cercando di coglierne i limiti sia giusto, però occorre tenere presenti alcuni elementi fondamentali. Gli amici di Capitini, ad esempio, erano persone che avevano preso le armi e che le avevano prese da una parte non dall'altra.

Che poi ci siano stati elementi di dolore, violenza, guerra... Io non mi sentirei di dire che non si sarebbe dovuto resistere. Posso dire però che a me piace una figura come Giuriolo che fa il comandante partigiano e non toglie mai la sicura al suo fucile, che pure porta per non far perdere fiducia a chi lo segue, e muore sull'appennino bolognese dopo aver combattuto sull'altopiano d'Asiago. Mi può piacere Tenerini, che è sepolto insieme a Capitini e che ha fatto tutta la Resistenza disarmato assumendosene i rischi ma sapendo che lui non avrebbe ucciso. Due persone Capitini ha tenuto quasi come figli: Ciabatti e Tenerini, tutti e due resistenti, uno nonviolento l'altro medaglia al valore e fucilato durante la Resistenza. Voglio dire, con questo, che gli stessi amici e compagni di Capitini non venivano da altro. Capitini aveva fatto la scelta del non uccidere correndo però i rischi di essere preso e ucciso come antifascista e organizzatore dell'antifascismo e della Resistenza, pur non avendo, per scelta, mai imbracciato le armi. Nelle situazioni storiche date, chi è orientato alla nonviolenza ed è amico della nonviolenza ha presente il fatto che partecipare alla guerra conduce, al di là della buona volontà, a compromettere il fine per il quale ci si sta battendo. Questo lo si sa ed è uno scrupolo, una responsabilità che ci si porta dietro. Ed è vero, questo, anche quando si dà vita ad una campagna nonviolenta, lo diceva anche Gandhi: ci si mette l'intelligenza, l'emozione e ciò può comportare persone che seguono e che possono perdere anche la vita. Anche questa è una responsabilità. C'è una frase che Capitini adopera spesso quando parla della nonviolenza come aggiunta: la nonviolenza o riesce ad essere un'aggiunta all'azione e al pensiero o sennò non ce ne facciamo un accidente. Non ci serve come un elemento di purezza. È una lente in più, uno strumento in più ed è, la nonviolenza come la intendo io, una nonviolenza che viene dopo la rivoluzione francese, dopo o contemporaneamente o in alternativa alla rivoluzione d'ottobre, una nonviolenza che si pone il problema di una liberazione. Non è, cioè, un qualcosa che viene prima, un ritorno a presunte origini in cui non sbagliavamo. Ciò che è accaduto è accaduto e ci siamo dentro, completamente, continuando a sbagliare. La nonviolenza è ciò che ci indica strade di uscita da condizioni che si avverte essere al di sotto delle possibilità umane.

Ma a tuo parere la nonviolenza fa parte della storia dell'occidente, nel senso che si pone come necessità in stretta relazione alla storia dell'occidente?

Tra i tanti meriti della nonviolenza ci sono questi due: il primo è che essa non può essere confinata in un territorio, non è e non può essere intesa come un gradino ulteriore di quella civiltà che solo in occidente ha avuto sviluppo davvero, come se la nonviolenza fosse quel “pezzetto in più” che possiamo aggiungere e gli altri chissà quando arriveranno. Pensiamo anche solo a Gandhi: è una figura che ci insegna ancora molto ed è bello che lui stesso fosse un prodotto “misto”, che riconosceva i suoi debiti rispetto all'impero britannico però senza farne un'esaltazione e che riuscì, partendo da un'esperienza particolare, a compiere un'analisi globale perché il problema era globale (la fine del colonialismo, l'emergere di altre nazioni in un mondo che era costruito sull'occidente o sulla sfida socialista).

Il secondo merito riguarda la nonviolenza come discorso dell'Occidente nel senso che in questo discorso c'è una critica di una rivoluzione alla quale sono affezionato, che è quella francese, dalla quale si capisce in modo chiarissimo come una deriva di violenza riesce a cancellare l'emergere delle spinte più forti e più alte che si sono date in quel momento; la nonviolenza, in questo senso, indica non che è sbagliato fare la rivoluzione, ma che è sbagliato farla non tenendo conto dei mezzi che s'adoperano, e che è sbagliato pensare la rivoluzione nei termini in cui la pensano i nemici della rivoluzione, averne la stessa immagine: violenza, disordine, cose che cambiano superficialmente ma poi la gente non cambia.

Invece come sarebbe bella una bella rivoluzione ordinata...

Capitini parlava infatti di tramutazione, l'idea di un ordine nuovo che viene da un mutamento profondo delle singole persone e delle loro relazioni. La nonviolenza ha qualcosa da dire in un momento di grande individualismo come questo: sì, purché l'individuo si riconosca come persona, persona che sta al centro dell'agire, che è spinta alla propria autorealizzazione, che pensa che la propria individuazione sia legata non unicamente alla sua capacità di consumo ma ad un progetto di vita e un progetto che, se è di vita, in un mondo fatto così deve per forza interrelarsi con altri che sono uguali: poiché è solo l'interazione con eguali a farci migliori e liberi (il che non può accadere quando tra le persone si creano rapporti di superiorità e inferiorità).

La libertà non finisce, come si usa dire, dove comincia quella dell'altro: la libertà si costituisce insieme alla libertà degli altri, libertà si ha solamente tra persone che sono libere, anzi! La libertà si costruisce con persone che sono in attitudine di liberarsi, di liberare se stesse e gli altri dalle cose con cui si misurano continuamente e che, per farlo, capiscono che c'è un pezzo di strada che devono percorrere da soli perché nessuno lo farà per loro, ma ce n'è anche un altro tratto che è necessario percorrere insieme perché è da un “assieme” che siamo costituiti. La nonviolenza, per quel che mi riguarda, mi richiama a questo punto che è il contrario di ogni dogmatismo e ideologia, che le impedisce, anzi, di essere ideologia. In tutto questo, inoltre, è necessario il modo in cui si vivono le cose: tra il vivere e il proporre qualcosa c'è un salto che sembra infinitesimo ma per me è grandissimo. Ho conosciuto persone che sento essere amici della nonviolenza perché si sente che lo sono, mentre trovo persone di cui ho stima, della loro intelligenza, degli impegni che perseguono, ma nelle quali alla fin fine c'è un'idea per cui “questa è la nonviolenza, se la vuoi è questa, sennò no”. Ebbene, contenti loro, io non c'entro con questo modo di procedere e ragionare. Dall'idea che ci sia un codice della nonviolenza, ho una distanza non abissale però abbastanza netta. È un'idea che trovo estranea a quel po' che ho sperimentato, più che pensato.

E quanto credi sia importante oggi, in questi contesto, l'antimilitarismo? Come andrebbe eventualmente articolato? Ad esempio io, sempre per ritornare alla famigerata questione generazionale, più volte ho espresso la mancata percezione di vivere in una società militarista.

Secondo me è importante che invece si comprenda la necessità dell'antimilitarismo, ed è importante che si comprenda, anche da parte nostra, la percezione che ne ha la società in generale, perché altrimenti è come se noi parlassimo ai persuasi e non ai perplessi. Non mi serve dire che c'è il militarismo se non riesco a far vedere qual è l'aspetto che non mi va e io stesso non ci faccio i conti cercando di arrivare ad un rapporto più ravvicinato con la gente che di mestiere fa il militare. Il militare non è in sé, lui, il militarista: può darsi, anzi, anche che si parli meglio col generale Mini che con il civile che vota il mio stesso partito, perché il primo è stato in Kosovo, sa di cosa si tratta... Bisogna che affrontiamo la questione facendo i conti con quello, ed è chiaro che l'armamentario concettuale va aggiornato e va forse rielaborato quasi daccapo. È vero, e si sa, che il militarismo è meno visibile: il militare ha scelto di occultarsi, di professionalizzarsi, quindi fa parte della libertà di ciascuno fare o non fare il militare, allo stesso modo in cui è un problema di ciascuno andare a mangiare da Mac Donald o essere vegano: questa è la bellezza del mondo e chi vi si oppone è visto come colui che si oppone alla libertà del singolo, per questo motivo la questione è da riaffrontare in altri termini. Occorre affrontare, per esempio, il problema della paura; perché mi serve la difesa, e in mancanza di meglio cosa ci può essere? Si fa presto a dire: “siamo tutti per la pace"; se si fa un sondaggio, in Italia o in Europa, domandando qual è l'istituzione che più si rispetta, la risposta sarà l'esercito. Il fatto è che con l'obiezione di coscienza e poi il servizio civile si è tolto il problema della scelta a gran parte delle persone, spostandolo: su chi per guadagnare è disposto a rischiare e su persone che vogliono una vita che appaia dotata di più senso. I corpi speciali non hanno nessuna difficoltà a reclutare, devono scartare le persone! Quindi la scelta di arruolarsi non possiamo deprecarla e basta. È stato di una grande superficialità dire, quando è stata abolita la leva: “su questo siamo d'accordo tutti”, perché non è importante sapere se siamo d'accordo o no, ma se ragioniamo sugli eventi e su quello che sta accadendo. Via dall'Afghanistan, dal Kossovo, no al Libano, questo qui è fatto bene, questo no... È l'idea del bar sport generalizzato, in cui tu dici tutto su tutto e anzi meno ne sai meglio è. Rispetto all'esercito questo è un punto fondamentale: chi sa come è organizzato l'esercito, come è fatto, perché si spende tanto, perché passare dall'esercito di leva a quello professionale con meno soldati costa di più, perché qualsiasi governo avrebbe dovuto aumentare le spese militari? Finanziaria di guerra, di pace, tutto giusto, ma queste questioni sono chiare, le sappiamo già. Dobbiamo capire perché succede. Perché qualsiasi scandalo che avviene, anche dieci volte più grande dell'immaginato, nell'esercito (forniture, appalti...) viene tacitato senza importanza.

L'antimilitarismo è un tema assolutamente essenziale su cui però non siamo riusciti a trovare la parola giusta, il passo giusto. Ovviamente prima funzionava di più, quando si veniva chiamati, ma funzionava per altri motivi, per gli stessi motivi per cui uno che abita in una bella villetta vicino al Dal Molin è contrario all'ampliamento della base. Non voglio disprezzare i motivi materiali, basta sapere che si parla di cose diverse.

È importante, l'antimilitarismo, perché è l'idea che con il militarismo ti abitui ad un luogo in cui l'obbedienza deve essere assoluta e incondizionata, non si può discutere, perché c'è di mezzo la sicurezza!

Se questo è vero, vorrei allora essere sicuro che le persone siano selezionate per questo, facciano davvero questo e non altro, tutte cose che invece non mi possono neanche dire perché se me le dicessero verrebbero meno all'esigenza di sicurezza! È un sistema autoreferenziale! Questo dell'antimilitarismo, dunque, è un compito grosso, che non si affronta solamente con i libri dei ricercatori della pace, perché ci sono altre dimensioni che andrebbero affrontate da un pensiero della nonviolenza. Non più eserciti e guerra l'abbiam già detto, lo sappiamo, ma dov'è il punto di applicazione di ciò, ora? Continuare a ripeterlo, senza se e senza ma, non mi fa andare avanti. Bisogna ripensare la questione nei termini complessivi per non riscandalizzarsi ogni volta (come con le questioni: la sovranità, chi comanda, è nostro territorio... ma chi ci ha detto che è nostro?).

Inoltre, più in generale, un problema sicurezza esiste, e non a caso ho citato prima l'immigrazione che è il tema, ora, del nostro paese. Intanto, a voler essere precisi, è un tema internazionale e dal modo in cui si risponde emerge il tipo di società che si è. E su questo io credo che la nonviolenza avrebbe qualcosa da dire, ma nonviolenza intesa non solo come l'andare incontro, l'accogliere i rom, oppure no è meglio disfare i Cpt ecc., ma come una concreta esperienza di inclusione dove altri hanno messo esclusione. Ecco perché, anche da questo punto di vista, è importante il modo in cui si comunica la nonviolenza. E si comunica con una strada che è di passaparola o passa azione, ci vuole una coerenza che non so quante persone sarebbero capaci di seguire e portarne la fatica. E ora questo tema dell'immigrazione è davvero centrale, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, per cui si comunica la nonviolenza anche sotto questo altro aspetto: ma cosa fanno, per dire, in Francia, i nonviolenti? Rispetto alle banlieues, cosa fanno? Occorre riprendere i contatti a livello europeo: cosa faremo alla prossima insorgenza a Milano dei cinesi coi loro cinquecento esercizi commerciali in un quartiere residenziale? In Italia ancora nessuna banlieue ha preso fuoco: da noi non succederà mai?

Sono cose su cui pensare, terreni di riflessione su cui il Movimento Nonviolento deve impegnarsi. Impegnarsi concretamente, ma soprattutto interpellarsi e lasciarsi interpellare, poiché non bastano le buone intenzioni per produrre qualcosa. La nonviolenza tra i suoi meriti ha anche quello di accettare il giudizio non solo sulle convinzioni, ma anche sugli esiti. Accetta di essere giudicata sui due versanti, usando la terminologia di Weber, di etica della convinzione e della responsabilità. Non basta sentirsi giusti, altrimenti facciamo il movimento delle persone giuste che fanno le cose giuste, ma la nonviolenza vuole essere nella storia e accettare di essere giudicata sui risultati e non (o non soltanto) sulle intenzioni.

Qual è il tuo più bel ricordo degli anni passati con la nonviolenza?

Mah... non tanto Capitini, per cui forse è stato più importante il ricordo e nemmeno tanto situazioni specifiche (come può essere stato, mi viene in mente, un campo di lavoro in Svizzera con Pinna e mia moglie e altri che venivano da tutte le parti d'Europa a lavorare e parlare e studiare per l'obiezione di coscienza). Il ricordo più bello è l'incontro con le persone, con cui parli e poi magari ti ritrovi a leggere un libro o a fare qualcosa. Ricordi dunque non tanto legati a grandi eventi, a manifestazioni, ma a colloqui e all'idea di aver interagito con qualcuno, fatto qualcosa insieme, costruita insieme una cosa che poi è stata buona.

 

Diana Napoli

(da La domenica della nonviolenza, n. 145 del 06/01/2008)

 

 

(Parte seconda - fine)


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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