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Ilaria Cucchi. “Signor Ministro della Giustizia, intervenga” 
No all’indifferenza. Lettera al ministro Angiolino Alfano
12 Gennaio 2010
   

Ilaria Cucchi scrive ai ministri Alfano e Maroni per chiedere un intervento contro «l’indifferenza e la superficialità» che ha riscontrato nel caso del fratello Stefano. Perché «non si aspetti nell’inerzia la prossima morte indegna che una famiglia distrutta sarà costretta ad urlare a tutto il Paese».

 

 

Sono Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucchi. Ho letto con attenzione la relazione dell’inchiesta amministrativa del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sul decesso di mio fratello. Gli esiti di questa lunga relazione sono a mio avviso sconcertanti.

Da sorella, madre, nonché cittadina di questo Paese, mi pongo queste domande che ritengo di condividere con Voi.

 

È risultato che al momento in cui mio fratello è stato arrestato vigeva la prassi per cui gli agenti di polizia penitenziaria, pur riscontando segni di lesioni evidenti sugli arrestati che arrivavano presso le celle di sicurezza del Tribunale di Roma, non si interessavano a tali lesioni e non chiedevano immediatamente l’intervento di un medico, ma lo facevano eventualmente solo al momento della presa in consegna da parte loro dell’arrestato. Perché fra le nostre forze dell’ordine questa condotta così comune, così radicata e così ben codificata?

 

Mi sconcerta quello che dice un agente di polizia ascoltato nel corso dell’inchiesta: «mi limitavo a chiedere informazioni anche perché non è facile lavorare con le altre forze di polizia»; lo stesso agente specifica: «questo significa che non intendevo approfondire la natura delle lesioni che constatavo perché l’arrestato era nella diretta responsabilità dei colleghi»; e poi ancora: «assumevo atteggiamento differente solo quando ritenevo che con la consegna dell’arrestato dovevo tutelarmi per eventuali questioni che potevano insorgere».

Perché questo atteggiamento di non chiedere e non approfondire le cause delle lesioni degli arrestati? Cosa significa che “non è facile lavorare con le altre forze dell’ordine”?

 

Quale verità ricorrente di cui è meglio “non impicciarsi” si cela dietro a queste non domande, a questo codificato disinteresse, a questa voluta indifferenza? Perché tutto questo “pudore” nell’approfondire la natura delle lesioni delle persone arrestate da parte delle altre forze di polizia?

Perché l’intervento di un medico viene chiesto solo per tutelare l’agente cha ha in consegna l’arrestato e per salvarlo da eventuali questioni che lo possano coinvolgere personalmente?

Perché - ci dice lo stesso agente citato sopra - solo oggi, «dopo i fatti in contestazione», «approfondisco la natura delle lesioni… fin dal momento dell’arrivo degli arrestati presso il reparto»?

Mi domando: qual è l’esigenza primaria degli agenti di polizia con questa nuova prassi dopo la morte di mio fratello? È davvero superata la volontà e la mentalità delle forze dell’ordine di tutelare ancora e solo se stessi di fronte al disagio delle persone che hanno in custodia? Perché vale così poco lo stato di salute di un arrestato? Perché valeva così poco lo stato di salute di mio fratello?

 

Ho letto nelle testimonianze degli agenti sentiti tutta l’indifferenza e la superficialità rispetto alla sofferenza che mio fratello manifestava mentre era in Tribunale e al successivo ingresso in carcere: perché tutti gli agenti si accorgono che sta male, tutti si rendono conto che le sue risposte sull’origine delle lesioni sono evasive o improbabili, tutti si rendono conto che Stefano ha quantomeno pudore a parlarne, ma tutti si limitano solo a “sdrammatizzare”"?

Mio fratello Stefano è arrivato ad affermare di fronte a due agenti che lo hanno condotto in ospedale che «i tutori dello Stato invece di garantire la tutela ai cittadini, gli avevano fatto questo», intendendo le lesioni che aveva riportato, e ha aggiunto che «non ce l’aveva con loro, ma che voleva parlare con il suo avvocato e avrebbe messo tutto in chiaro».

Sapete cosa ha fatto uno dei due agenti? «Da quel momento non ho più parlato con il Cucchi, ho preso le distanze pensando che ognuno doveva rimanere al suo posto».

Perché questo atteggiamento, dichiarato candidamente come fosse il migliore possibile?

Perché nessuno degli appartenenti alle forze dell’ordine si è preoccupato di tranquillizzare mio fratello, di spiegargli che in questo paese moderno e civile egli avrebbe potuto denunciare chi gli aveva fatto del male, che la denuncia era un suo diritto ed era anche un loro dovere come pubblici ufficiali, che lui non avrebbe dovuto temere in alcun modo le conseguenze del racconto della verità?

Perché, poi, tanti agenti sentono mio fratello fare riferimento al “suo avvocato” con cui voleva assolutamente parlare, ma alla fine a Stefano viene assegnato un difensore d’ufficio?

Guarda caso nel verbale con cui mio fratello è stato consegnato dai Carabinieri alla Polizia Penitenziaria, firmato alle ore 13.30 del 16 ottobre, si indica come avvocato, anche se d’ufficio e non di fiducia, l’Avv. Stefano Maranella che all’epoca era effettivamente il legale della nostra famiglia: perché se Stefano aveva esattamente indicato il nome e il cognome dell’avvocato da cui voleva essere assistito non è mai risultata questa nomina di fiducia? Perché nessuno durante il suo ricovero al “Pertini” ha fatto in modo che Stefano riuscisse a parlare con il suo difensore, oppure lo ha aiutato - lui sofferente e immobilizzato a letto - a realizzare questa sua volontà? Perché valevano così poco le esigenze, le volontà e i diritti di mio fratello? Forse perché era un tossicodipendente?

 

Altre cose emerse dalla relazione mi lasciano sconvolta. Perché durante la notte trascorsa nelle celle di sicurezza di “Tor Sapienza”, quando poco dopo le 5 è stata chiamata l’ambulanza, i Carabinieri non chiariscono i motivi della richiesta del soccorso sanitario né i sanitari chiedono spiegazioni ai Carabinieri, accontentandosi del riferimento ad un generico “lamentarsi” di Stefano? È normale questa superficialità nell’approccio sanitario per gli arrestati nelle celle di sicurezza? È normale che una cella di sicurezza, oltre ad essere di ridottissime dimensioni tali da entrarvi solo uno alla volta come riferito dai sanitari, sia anche al buio, illuminata solo dalla luce del corridoio?

 

E poi il trattamento al “Pertini”. La relazione su questo aspetto delinea un quadro incredibile; ben otto i rimproveri del Dap: non è stato previsto nessun servizio di accoglienza; non è stato favorito il rapporto con la famiglia; non è stato favorito il contatto con il difensore; non sono stati favoriti i contatti con la comunità terapeutica; sono state aggravate le procedure per il diritto ai colloqui e alle informazioni sanitarie ai parenti, con indicazioni errate e affisse in avvisi; è mancata ogni comunicazione con la famiglia del ristretto, anche sulla notizia del decesso; è mancato ogni correttivo alla evidente incapacità di dare rapida e corretta attuazione al procedimento autorizzativo dell’incontro medici - parenti; è mancata ogni forma di coordinamento con le regole penitenziarie e dell’accoglienza, e ogni genere di verifica ispettiva sul reparto.

Quante persone all’interno del “Pertini” si sono accorte dello stato di disagio non solo fisico ma anche psicologico di Stefano? Quante persone si sono accorte del travaglio dei genitori?

Perché in sei giorni di ricovero Stefano non è stato cambiato nemmeno una volta, sebbene il personale avesse ritirato la biancheria portata da sua madre? Lo stato di disagio di Stefano era “normale” e non degno di attenzione perché “era un tossicodipendente”? Perché ben quattro medici del “Pertini”, convocati a rendere dichiarazioni nell’ambito dell’inchiesta del Dap, non si sono nemmeno presentati? È normale questo clima di disinteresse e indifferenza in chi opera in una struttura come il “Pertini”?

 

Io non voglio in alcun modo sottovalutare la difficoltà del compito delle forze dell’ordine che so essere delicato e complesso, ma non posso non manifestare tutta la mia indignazione perché la dannata “normalità” delle lesioni sulle persone arrestate, la dannata “normalità” di non interessarsi a tali lesioni finché non diventa “affar proprio”, la dannata “normalità” del disagio di una persona tossicodipendente in stato di restrizione, è una “normalità” che, quando viene percepita sistematicamente come tale, porta inevitabilmente ad una disumana, indegna e degradante indifferenza da parte di chi opera con le persone in stato di restrizione.

Un’ indifferenza che uccide: di morte altrettanto disumana, indegna e degradante, come quella che ha subito il mio amato fratello. Un’indifferenza che non è degna di un Paese civile, e a cui non deve essere permesso di poter permeare nelle condotte quotidiane dei dipendenti delle nostre Istituzioni. E allora, da sorella, madre e cittadina, Vi chiedo di intervenire affinché questa “normalità” non venga più tollerata, affinché non venga dimenticato ciò che è successo a mio fratello e affinché non si aspetti nell’inerzia la prossima morte indegna che una famiglia distrutta sarà costretta ad urlare a tutto il Paese. Con fiducia e rispetto.

 

Ilaria Cucchi

(da Notizie radicali, 12 gennaio 2010)


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