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NNI 15. Massimo Campo. Raccontare Cuba parlando di sesso
28 Maggio 2008
 

«Ai tempi di Batista, Cuba era il bordello degli Stati Uniti. Adesso è il bordello del mondo» (Alejandro Torreguiitart – Cuba particular). Una citazione dovuta apre il mio commento all’opera di Massimo Campo, perché i nuovi scrittori cubani sanno raccontare bene la vita quotidiana dell’isola caraibica ai tempi del periodo speciale. Il nuovo re barbuto, come lo chiama Campo, mantiene il suo popolo nella miseria più nera, convinto di poterlo dominare con maggiore facilità, perché chi deve risolvere il problema alimentare non ha tempo da dedicare ad altre questioni.

I cubani sono costretti a ingegnarsi per sopravvivere, scarrozzano turisti, aprono paladares, improvvisano alberghi illegali, vendono rum e sigari contraffatti, soprattutto combinano incontri con turisti affamati di sesso. L’Avana, città decadente e romantica, scrostata da tempo e incuria, percorsa da vento di povertà e cicloni è lo scenario dove inventare ogni giorno un nuovo modo per sopravvivere. Massimo Campo sta per pubblicare Jineteras – Puttane all’Avana (Edizioni Il Foglio), una raccolta di racconti che parlano di sesso e incontri tra stranieri e jineteras, descrivono l’arte di arrangiarsi di un popolo stanco ma pieno di voglia di vivere, puntano il dito accusatore contro un regime liberticida. La prosa è cruda, i racconti risultano eccessivi, blasfemi, volgari, ma sono storie sincere, prese dal quotidiano, perché la vita è più cruda di ogni fantasia letteraria. Massimo Campo descrive con dovizia di particolari il meschino inganno perpetrato ai danni di un popolo e realizza un veritiero affresco utilizzando uno stile poco letterario, desunto dal gergo cubano e dalla vita di strada. L’autore è un profondo conoscitore della Cuba più vera, non si lascia irretire da valutazioni ideologiche e racconta le cose che vede tra calle Obispo e il Malecón, come se stesse componendo un malinconico bolero. Il tono di fondo della narrazione è nostalgico, i protagonisti sognano un futuro diverso, ma sono consapevoli che non esistono possibilità di cambiamento. Campo è autore italiano, ma la sua prosa ricorda Pedro Juan Gutiérrez e Charles Bukowski, racconta la vita quotidiana e parla di sesso, perché l’erotismo è un elemento irrinunciabile nell’esistenza di un cubano. La politica fa capolino da certe situazioni e dai ragionamenti dei personaggi, ma non è mai inserita come sovrastruttura del racconto. Fa eccezione il racconto che presentiamo, la stupenda favola della libertà che chiude la raccolta e narra l’esistenza tormentata di Reinaldo Arenas. Una piccola checca contro un re barbuto, costretta a fuggire da un regime barbaro che non ammette opinioni diverse dalla piena glorificazione delle idee rivoluzionarie. Jineteras – Puttane all’Avana è una raccolta di racconti legata da un filo conduttore, così omogenea da sembrare un romanzo ed è un libro utile per la causa della libertà di Cuba. L’autore scrive secondo l’ottica dei più deboli, non giudica ma comprende la vita di chi deve prostituirsi per sopravvivere e coltivare una speranza. Jineteras è una malinconica e struggente raccolta di storie che vede protagonisti i vinti di verghiana memoria. E certi italiani impregnati di ideologia e di menzogne propagandistiche, come sempre, non ci fanno una bella figura…

 

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

 

 

Massimo Campo (Roma, 1969), si occupa di organizzazione aziendale e tecnologia per multinazionali della comunicazione. Ha vissuto lunghi periodi all’Avana, Francoforte e Tokyo. Ama la prosa cruda, sincera e nuda, di Pedro Juan Gutiérrez, Charles Bukowski, Irvine Welsh. Ha scritto racconti erotici per Eroxè e RossoScarlatto. Sta per pubblicare la sua prima raccolta di racconti (Jineteras - Puttane all’Avana, Edizioni Il Foglio). Scrive sul blog avana.ilcannocchiale.it

 

 

 

La checca contro il nuovo re barbuto

piccola favola della libertà

 

 

Questo racconto è liberamente ispirato dalle vicende narrate nella splendida autobiografia* di Reinaldo Arenas, sublime scrittore, dissidente politico, uomo pieno di dignità, patriota cubano.

* Prima che sia notte, Guanda

 

 

Reinaldo era una checca ridente.

Uno di quegli uomini pieni di personalità, che hanno una semplice e dichiarata passione per gli altri uomini. Siano pure, questi, dei bruti maneschi che non hanno mai letto un libro.

Lui, invece, di libri ne aveva letti, eccome.

Con lui potevi parlare della letteratura sudamericana come di quella anglosassone. Dei russi poi, poteva dirti tutto.

Solo che a Reinaldo piacevano i ragazzi, i maschi belli e fatti, da cui prendeva, e a cui dava, tutto il piacere possibile.

Era un essere mite, non aveva mai costretto nessuno a fare un sorriso, figurarsi a finire in un letto oppure solo ad aprire le cosce.

Quando vennero a prenderlo, per interrogarlo, la polizia era incancrenita in una rabbia senza parole. Lo ammanettarono con violenza e lo colpirono sul volto.

Aveva un grande peccato quell’uomo, da farsi perdonare, quella checca direi: scriveva.

Con una solarità originale raccontava tutto ciò che circondava la propria esistenza. Scriveva e veniva pubblicato in tutta Europa. Dove la parola dell’uomo è più forte di qualsiasi immaginifico bene comune.

Che menzogna volgare parlare di bene comune! Quanto sangue ha causato questa bugia primordiale e quanto sgomento. Sarebbe difficile il solo pensare una quantità talmente immensa.

E scriveva bene.

Le sue pagine erano piene del sole e della luce dei Caraibi, e della miseria e della disperazione di un popolo. Del suo popolo. Tutta Cuba ci stava in quelle parole, con la compostezza temperante del sogno. Con il dono dell’arte che quell’uomo, quella checca, aveva nel sangue.

Scriveva col solo sogno di urlare il disagio della propria anima e di raccontare, raccontare, raccontare.

Dire al mondo che il dolore, e la rassegnazione dello schiavo, erano tornati in quell’angolo di paradiso. Dove, per un fato infausto, un nuovo re barbuto s’era incaricato del destino di quel popolo danzante.

Il re barbuto, e i nuovi cortigiani sculettanti ai suoi voleri, detestavano questi esserucoli così privi d’amore, così irrispettosi per la nuova gerarchia. E allora incarceravano tutti coloro che sapevano parlare agli altri, ah quale dono magico è mai questo, e che erano toccati dalla dignità umana.

Va da sé che anche il capo tribù più selvaggio, come il re barbuto più scaltro, deve salvare le apparenze: “Non possiamo incarcerare un uomo solo perché scrive! Troviamo il suo punto debole!”.

Quando arrivarono gli schiavi del re, coi ceppi in mano, dissero a Reinaldo che lui aveva violentato dei ragazzi, sulla spiaggia poi, in mezzo alla gente...

Che fare, allora, oltre che ridere di tanta stupida vigliaccheria? E lui rise, chiedendo di sentire dalla proprie orecchie tale bugia.

I servi del re barbuto, però, erano piccole immagini del terribile padrone e a questo non acconsentirono.

Reinaldo comprese che quegli individui volevano fargli del male. Solo perché, si diceva disperato, aveva raccontato del dolore dei suoi fratelli, della sua terra. Allora quei brutti ceffi volevano privarlo (ancor di più) della libertà.

Sfruttando la distrazione del soldato, visto che la caserma era in riva al mare, si gettò in acqua.

Nuotò, per molte ore e per alcuni chilometri, sino a quando fu sera.

Poté uscire dall’acqua nei pressi di dove abitava. Era tremante per il freddo e oppresso dalla fatica. Senza soldi e senza che la parola speranza avesse più alcun possibile significato.

 

Reinaldo era diventato un fuggitivo.

 

Entrò nella stanza dove abitava, prese qualche maglietta e i manoscritti dei suoi lavori. E corse via.

Si nascose per molto tempo. In piccole foreste appena fuori la città. Aveva contattato alcuni amici che gli portavano da mangiare e qualcosa da leggere. E lui, la checca, era costretto ad una vita da scimmia con i cacciatori sempre alle spalle.

Ma fu tradito.

La polizia del re barbuto era infida, e brava, a regalare il pane ai traditori.

Quando vennero a prenderlo, per arrestarlo, la polizia era incancrenita in una rabbia senza parole.

Lo portarono via e lo chiusero in un cella piena d’umidità e d’insetti senza nome.

Tra assassini e ladri, stupratori incalliti, spie infiltrate dal governo, checche urlanti e miserabili dementi biologici. Nel castello di pietra e dolore de el Morro.

Nel cuore dell’Avana, di fianco al Malecón, quella roccaforte spagnola si ergeva a monito di tutti i Reinaldo dell’isola.

Il re barbuto difendeva così le proprie idee.

Quell’uomo, quel frocio incarcerato, aveva in sé la consapevolezza del giusto.

Voglio dire, sapeva esattamente in ogni istante della propria giornata che quegli individui che lo privavano della libertà, e che tentavano di fare lo stesso con la sua dignità, erano delle emerite carogne... senza alcuna giustificazione.

Perchè a vederla da fuori la situazione è diversa. Voglio dire, in Europa si supponeva che omosessuali, poeti, scrittori e dissidenti venissero gettati in carceri simili a fogne... quindi era evidente comprendere chi fosse il cattivo della situazione.

Ma quando sei dentro un buco di merda, con le tue feci sino alle caviglie, con un cibo scadente e individui che ogni giorno ti urlano contro che sei tu il marcio... che sei tu il marcio... che sei tu il marcio... qualche dubbio può venire.

A Reinaldo no.

Ah, la forza maestosa della dignità!

Dopo mesi di violenza e privazioni, secondo consolidati calcoli mefistofelici da carcerieri rivoluzionari, quell’uomo, quella checca, era pronto a guarire.

Guarire dalla terribile malattia dell’antisocialità, della evidente incapacità di venerare una rivoluzione di pura poesia e giustizia. Guarire dal cancro della cattiveria che si faceva largo nelle sue viscere.

Era il tempo della delazione!

Quando vennero a prenderlo, per seviziarlo, la polizia era incancrenita in una rabbia senza parole.

Lo gettarono in una cella d’isolamento dove non poteva neanche starsene in piedi per quanto era bassa. Dove non poteva sdraiarsi completamente per quando era stretta. Dove non poteva sognare, dormendo, per quanto era orribile.

Dopo una settimana: sette giorni e sette notti nel proprio piscio e nella merda... lo condussero finalmente alla sala dell’interrogatorio.

Con la proverbiale potenza del forte, l’ufficiale incaricato (dignitario di corte dei nuovi re di Cuba, esseri barbuti e onnipotenti) diede inizio alle danze.

Tu frocio di merda ora devi parlare. Tu frocio di merda devi dirci come sei riuscito a mandare i tuoi merdosi manoscritti in Spagna. Tu frocio di merda ci devi dire chi sono i tuoi amici che non amano la Rivoluzione. Tu frocio di merda devi parlare se non vuoi morire”.

Bisogna dirlo, e senza malizia lo faccio, non tutti i servi del re barbuto erano dotati della sua retorica possente e illusoria.

Altri, come questo ufficiale carceriere, erano, per così dire, più talentuosi nel tormento che nel ragionamento.

Ma Reinaldo, la checca imprigionata, toccato da chissà ancor quali energie si fece sberleffo del tipo.

Malgrado tutto i due supposti violentati, durante il processo, dissero che non era vero. Che Reinaldo non aveva compiuto alcuna violenza.

Ah, quale sgarbo! Il giudice era furente!

Ma la Rivoluzione regalò, lo stesso, due anni di condanna al suo figliolo più cattivo.

Questa è la proverbiale giustizia regalata al proprio popolo dal re barbuto. Quanto dolore, amici. Che il solo tacerlo significa accettarlo.

Gli interrogatori si aggiungevano ai tormenti. L’ufficiale voleva dei nomi, i nemici della Rivoluzione diceva. E Reinaldo, scaltro e sottile, scrisse una lunga lista.

Erano, quelli, tutte spie della polizia.

Suoi amici scrittori, di cui aveva avuto prove certe di tradimento, e semplici conoscenti, noti per collaborare col governo.

I tormenti non avevano fine.

I topi che schizzavano veloci tra la merda lo deprimevano nel cuore. Si sentiva un miserabile, un uomo finito, una checca gli ricordavano sempre.

Lo spostarono in un carcere all’aperto, dove sotto il sole cocente doveva fare lavori manuali e pesantissimi. Spostare terra tutto il giorno, con una carriola arrugginita, come la sua esistenza. L’obbligarono a scrivere al suo editore francese che andava tutto bene. Che aveva sbagliato ma che si stava riabilitando, e che ogni tanto poteva anche uscire dal carcere.

Gli dissero di scrivere che la rivoluzione, la Rivoluzione, era giusta e che lui ora l’aveva capito. Che il re barbuto era buono, e bravo, col suo popolo festante.

Solo dopo aver rubato qualche anno della sua esistenza lo fecero uscire, per porlo sotto uno strettissimo controllo della polizia politica.

Dopo altri quattro anni, di sorveglianza e tormenti, riuscì a fuggire dall’inferno, per andare negli Stati Uniti.

Fuggì coi pazzi e ladri e froci di cui il re barbuto voleva liberarsi.

In esilio.

Dove vinse premi letterari e borse di studio, dove tenne conferenze e scrisse libri meravigliosi.

Ma dove la sua vita da esiliato, lontano dalla propria terra, lo segnò dentro.

Reinaldo morì suicida, malato incurabile di una malattia del sangue e di un’altra, più feroce, dello spirito.

 

Prima di morire lasciò copie di questa lettera per gli amici.

 

Amici Cari, a causa dello stato precario della mia salute e della terribile depressione sentimentale che provo al non poter più scrivere e lottare per la libertà di Cuba, metto fine alla mia vita. Negli ultimi anni, benché molto malato, ho potuto terminare le mie opere letterarie, a cui ho lavorato per quasi trent'anni.

Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che presto Cuba sia libera. Sono soddisfatto di aver contribuito, anche se modestamente, al trionfo di questa libertà. Metto fine alla mia vita volontariamente, perché non posso più continuare a lavorare. Nessuna delle persone che mi stanno vicino è coinvolta in questa decisione. C’è solo un responsabile: Fidel Castro. La sofferenza dell’esilio, la solitudine e le malattie non mi avrebbero certo colpito se avessi potuto vivere, libero, nel mio paese.

Esorto tutto il popolo cubano dell’esilio, come dell’Isola, a continuare a lottare per la libertà. Il mio non è un messaggio pessimista, è un messaggio di lotta e di speranza.

Cuba sarà libera. Io lo sono già.

Reinaldo Arenas


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