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Maria G. Di Rienzo. Umanità, dignità e rispetto
31 Gennaio 2009
 

«La fonte del concetto di 'diritti umani' è molto più vecchia di qualsiasi religione conosciuta. Si basa sull'antico convincimento etico che noi dovremmo trattare ogni persona nel modo in cui vorremmo essere trattati noi stessi. (...) Noi desideriamo essere trattati con umanità, dignità e rispetto. Perciò dobbiamo trattare gli altri con umanità, dignità e rispetto. Sfortunatamente gli esseri umani spesso non si trattano bene l'un l'altro. (...) Le umiliazioni ed il genocidio subiti dal popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, il massacro degli armeni da parte dei turchi all'inizio del XX secolo, i campi di concentramento britannici in Sudafrica durante le guerre boere, ci ricordano che nessuna cultura può essere compiaciuta della sua condotta verso le altre. E, di questi tempi, non abbiamo bisogno di guardare più lontano delle nostre case. Violenza domestica, l'abuso sessuale dei bambini, il trattamento riservato agli anziani, sono tutte questioni che ci interrogano sul nostro personale impegno nel trattare umanamente le altre persone. (...) Perciò il rispetto dei diritti umani si basa davvero sull'etica individuale. Ma anche il concetto di legge si basa, in gran parte, su convincimenti etici. Si basa su ciò che una società ritiene valori da promuovere e proteggere. Anche se ciò va contro ai ricchi e ai potenti. Proteggere i diritti umani riguarda quindi il primato della legge: quella regola che dice che essa si applica a tutti allo stesso modo, che tutti siamo uguali di fronte alla legge».

Incipit della lezione “Basi giuridiche dell'uso delle leggi internazionali sui diritti umani”, tenuta dalla giudice Nazhat Shameem (foto) all'Istituto nazionale di giustizia e studi legali delle Isole Fiji.

Non so se è necessario citare una commentatrice meno occidentale di questa, mi sembra poi che le Fiji stiano ben ad oriente rispetto a dove ci troviamo noi, e mi auguro che sia sufficiente. Ciò detto, sembra che questa donna musulmana non consideri le parole “diritti umani” qualcosa di estraneo alla sua cultura, una perversione occidentale o un concetto vuoto. Di più: insegna ad altri come implementarli. Forma avvocati specializzati in legislazione internazionale sui diritti umani. E conclude la sua bellissima lezione con queste parole: «L'esame che dobbiamo affrontare è quanto siamo capaci di essere umani con i nostri cittadini meno importanti o meno piacevoli: questo è il test che ogni civiltà deve superare per chiamarsi tale».

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Patriarcati vecchi e nuovi se mai considerano le donne come cittadine di qualcosa, le annoverano certamente nelle categorie “meno importanti” e “meno piacevoli”: infatti, i patriarchi sono soliti emanare tonnellate di regole e proibizioni e divieti e codici di comportamento che non si sognerebbero mai di adottare per loro stessi, ma che le donne sono tenute ad osservare minuziosamente pena l'ostracismo, il castigo e la condanna a morte. Di fronte a tali “leggi”, quindi, esse non sono uguali. Qualsiasi legge che codifichi la disuguaglianza, che sancisca i proverbiali due pesi e due misure, sfugge al “primato della legge”, ed è perciò contraddizione in termini, tirannia ed abuso. E ciò vale per l'idiozia dell'amministrazione comunale che vieta i cibi “etnici” nel centro storico, per la ferocia di chi ammassa migranti in galere “a permanenza temporanea” e per la violenta arroganza di chiunque pretenda di stabilire una gerarchia fra esseri umani, in virtù della quale metà dell'umanità fa schifo a priori.

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Il 19 gennaio 2009, nella valle di Swat in Pakistan sono saltate per aria cinque scuole. Fortunatamente erano vuote per le vacanze invernali, ma il governo ha chiesto agli istituti scolastici ancora in piedi di prorogare tali vacanze almeno sino a marzo, sperando di trovare nel frattempo una soluzione. Gli osservatori locali e stranieri dubitano che sia possibile: l'anno scorso, nella zona, erano già bruciate 180 scuole. Si tratta della campagna moralizzatrice contro l'istruzione femminile guidata dal comandante talebano Maulana Fazlullah, un signore che dopo aver rapito gente a scopo di estorsione e ricatto, distrutto e saccheggiato villaggi, decapitato gli oppositori interni e ucciso a fucilate quelli esterni di morale ne deve sapere veramente molto, abbastanza comunque da essere certo che le scuole femminili «promuovono oscenità e volgarità». Vuoi mettere quanto sano e pulito è un omicidio, al confronto.

La valle di Swat era un tempo nota come “la Svizzera del Pakistan”, e la sua città principale, Mingora, meta del turismo “romantico” per le coppie in luna di miele. Il mese scorso a Mingora c'erano cinquanta cadaveri per strada, alcuni decapitati, con cartellini appuntati che vietavano di rimuoverli sino a contrordine dei talebani. È la sorte toccata anche ad una vedova del villaggio di Kuza Bandai, un'insegnante che manteneva con il proprio lavoro se stessa e tre figli piccoli. Perché non basta che le donne non studino, non devono neanche avere un impiego. La radio diffonde i messaggi, diretti agli uomini: tenetele a casa o ne pagherete le conseguenze. Ma non c'erano uomini nella casa dell'insegnante, e quando i talebani la affrontarono direttamente la donna si rifiutò di smettere di lavorare. Perciò fu picchiata, umiliata, uccisa, e al cadavere esposto al pubblico si applicarono delle cavigliere, il segno distintivo delle prostitute.

Un anno e mezzo di occupazione talebana ha già fatto fuggire dalla valle decine di migliaia di persone e i musulmani fuggiti non la pensano diversamente dagli altri. Jahanzeb Khan sta cercando lavoro a Peshawar per poter portare via da là la sua famiglia: «I militanti hanno fermato mia moglie e mia figlia, e hanno ordinato loro di mettersi il burqa, minacciando ritorsioni, nonostante tutte e due portassero chador lunghi e pesanti».

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Ma a Peshawar c'è anche Shaista Bibi: è venuta in città per comprare libri scolastici destinati alla sua nipote quindicenne. «Adesso devo trovare un modo sicuro per portarli a mia sorella, che vive nella valle di Swat, in un villaggio vicino a Matta». La sorella maggiore di Shaista, Qudsia Bibi, ha in progetto di non far perdere gli esami alla figlia. La ragazza vuol diplomarsi in primavera, come avrebbe fatto se non le si fosse impedito di andare a scuola. Qudsia, che è laureata, ha accettato di insegnare anche ad alcune ex compagne della figlia: arrivano a casa sua alla spicciolata, in segreto, con la consegna di dire a chi le ferma per strada che stanno andando a far la spesa o cose simili.

Vedete? Desiderano essere trattate “con umanità, dignità e rispetto”. E lo desiderano al punto che nemmeno le minacce di morte riescono a fermarle.

Qudsia e le ragazze domani potrebbero essere uccise. A chi consiglia sempre agli altri di “sporcarsi le mani” per giustificare cose simili, in nome della religione, delle tradizioni, delle culture, dell'oppressione imperialista, eccetera, vorrei dire che sono disposta a mettere le mani nel fango, negli escrementi e persino nel fuoco, ma nel sangue delle mie sorelle no.

 

Maria G. Di Rienzo

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 30 gennaio 2009)


 
 
 
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