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Valeria Manieri. Insomnia café 8. Dal pregiudizio micro al conflitto macro
10 Ottobre 2007
 

Ho attraversato un mese complesso sotto molti punti di vista che mi ha portato a riflettere su aspetti piuttosto dolorosi della vita: la violenza e il pregiudizio. Entrambi riescono ad abitare perfino nelle persone che si professano libere e indipendenti. Personalmente resto sempre abbastanza male quando vedo ergere muri modello Jane Austen in Orgoglio e pregiudizio. Non riesco a giudicare gli altri ed è l’unica cosa positiva di me di cui vado davvero fiera. Per il resto ho tremila difetti. A volte mi rendo conto di essere incapace ad accettare la mancanza di un confronto franco vis à vis. Pretendo, forse sbagliando, l’onore delle armi, quelle nonviolente possibilmente, pretendo il confronto, lo sguardo, gli occhi, la bocca, quasi al limite dell’autolesionismo talvolta.

 

Tuttavia c’è una cosa che mi lascia basita e che ho riscontrato. Nutro una certa intolleranza verso coloro che si ergono ad elegantiae arbiter e che ti scagliano contro giudizi senza sapere nulla o quasi della persona della quale troppo si occupano. Non mi riesce di avere a che fare con chi non è capace di parlare con me e basta senza dover avere lo squadrone dietro o coloro che trovano una propria ragione solo se condivisa. Il branco insomma mi ha sempre fatto un po’ tristezza.

 

Posto che la ragione è dei cretini e che spesso non è il fine ad avere rilevanza quanto piuttosto il viaggio e la strada che si può percorrere insieme, ho conosciuto, non senza qualche stupore, persone che pur di mantenere in piedi un pregiudizio sono pronti a negare la propria intelligenza e chiudere a chiave ogni porta. Così, proprio come canta nella splendida opera rock di Gianna Nannini su Pia De’ Tolomei, «e l’amor, il nostro amor, marcisce dietro questa porta».

Mi sono chiesta al di là dell’ironia e delle situazioni personali quante fossero le persone prigioniere del pregiudizio.

 

Se questo meccanismo perverso infine nuoccia di più a coloro che il pregiudizio lo frappongono tra sé e un altro o a chi lo subisce. O se forse lo subiscono in fondo entrambi gli attori coinvolti: su tutte e due un presto o tardi graverà un pesante danno. Nel cercare di capire questo, con curiosità un po’ perversa e infantile, ho constatato che chi cerca di superare il pregiudizio e fa dei tentativi nell’andare oltre, se non cambia “cornice” (gergo usato in psicoanalisi che in sostanza significa cambiare punto di osservazione e anche possibilmente non lasciarsi influenzare da altri attori che popolano il nostro piccolo mondo relazionale) non ci riesce. Ho capito che il metodo spesso tradisce le intenzioni.

 

Un metodo che si esplica in un finto confronto con l’altro spesso risulta un dialogo privo di scambio reale, in buona sostanza una godibilissima masturbazione. Questo metodo non mi piace nemmeno nella politica, tanto che le critiche politiche che ogni tanto muovo sono solitarie e su analisi di fatti o di comportamenti. Cerco di non chiudere mai la porta al confronto o anche alla possibilità di ricredermi. Le persone cambiano, le idee mutano, noi cresciamo.

 

Nessuno è immune al germe del pregiudizio, nemmeno la sottoscritta, e il pregiudizio è la pigrizia della mente, è il sonno delle emozioni, è ciò che ci consente di vivere tranquillamente nel nostro giardinetto avvicinando solo coloro che ci sembrano affini. Spesso le frequentazioni di cui ci circondiamo non sono che caste, altre recinzioni, corporazioni, lobbies. Nelle amicizie, nei rapporti, come nella politica.

 

Ho riscontrato anche un altro aspetto, peraltro abbastanza divertente. Nella mia ricerca di confronto con chi mi scagliava contro il proprio pregiudizio, mi sono resa conto sempre più conto che la disponibilità, la nonviolenza, la generosità, la gentilezza , mettono in difficoltà il prossimo. Che buffo!

 

Forse siamo tutti talmente abituati al doppio gioco, alla polvere sotto al tappeto, allo scheletro nell’armadio, che guardiamo con sospetto chiunque si comporti diversamente.

Persino la nonviolenza, una generosa azione come lo sciopero della fame o della sete, spesso la reputiamo come un ricatto, come una fregatura. Persino le intenzioni politiche, il perpetrare interessi di una parte sociale, il sano interesse per una tematica la riteniamo solo una scusa per farsi gli affari propri. Dio, c’è sempre i terribile sospetto di sòla.

 

Spesso però si confonde l’interesse legittimo, perfino quello personale unito a una certa utilità sociale, con l’arrivismo. Insomma c’è sempre qualcosa sotto. Se non c’è qualcosa “sotto” in realtà non significa che abbiamo a che fare con un santo, bensì con un consapevole peccatore, una persona che vive e lascia vivere e non serba rancori perché la vita è già abbastanza complessa. Io credo non sia importante sapere se uno sia un santo o un mascalzone, penso sia più utile e interessante capire perché una persona sia divenuta un santo o un mascalzone. Soprattutto nel momento in cui si conosce l’opzione aderente alla realtà si può stare tranquilli. Si può conoscere ancora di più, senza scartare né il santo né il mascalzone, ammesso che esistano le due categorie umane.

 

La nostra società attraverso il pregiudizio ha sposato una perpetua violenza, una guerra preventiva alla conoscenza dell’altro da sé. In fondo questo concetto non è poi tanto diverso dalla censura, dalla negazione del diritto a conoscere per deliberare.

 

Sul pregiudizio, sulla violenza, sulla mancanza di dialogo tengo a mente due frasi negli ultimi tempi, che mi aiutano a non cadere in una solitudine che ogni tanto si manifesta, spesso accompagnata dal dolore delle persone smarrite e dai mancati confronti. La prima è il detto “Solo i cretini non cambiano mai idea”. La seconda l'ho letta qualche giorno fa nell'ufficio di Emma Bonino mentre sistemavo i fogli dopo l'intervista. Mi sono alzata e mentre lei parlava al telefono, mi sono messa a sbirciare la parete dell’ufficio piena di foto. Ce ne era una con accanto una dedica di Aung San Suu Kyi. “Peace begins with compassion”. La pace inizia con la compassione.

 

Ora sembrerà stupido da morire, ma a parte i conflitti nel mondo e la storia di questa donna coraggiosissima in Birmania, questa frase mi ha riportato al mio piccolissimo mondo, fatto di litigi, di comprensione, di amore, di rapporti interrotti, di cose taciute e altre gridate, di persone trovate e perse per strada. Mi riportava alla guerra israelo-palestinese, all’Iraq, all’Afghanistan, alle persecuzioni, alla pena di morte. Alla storia del mondo, dalla genesi dei conflitti alla nascita di un desiderio diverso, quella speranza chiamata pace. Semmai ci sarà.

Per poco non sono scoppiata a piangere nel bel mezzo dell'ufficio della Bonino.

Sono uscita dal ministero e quella frase mi pulsava dentro. Mi sono anche sentita un po’ scema devo ammetterlo. I massimi sistemi, i micro pregiudizi e i macro conflitti mi fanno sempre riflettere, fino a dover scoppiare a piangere per forza, per liberarmi dal senso di impotenza che avverto e che può gettare nel nichilismo.

 

Scaccio via quel pensiero e ripenso alla nonviolenza. Il significato della nonviolenza non è lasciar correre, o farsi insultare o picchiare senza reazione, ma la volontà di comprendere, d'essere curiosi, di capire, di operare generosamente non a servizio di sé stessi ma degli altri. Di prendersi anche parole che fanno male, ma mettere a disposizione il proprio corpo e le proprie emozioni a servizio dell'altro, che non è in fondo poi così “altro” da noi. La nonviolenza in fondo è essere generosi. Ad essere generosi non si perde nulla. A essere chiusi con i lucchetti alle porte invece ci si perde eccome. Anzi si perde e basta. Penso in questa Insonnia Café che riprende dopo due settimane di silenzio voluto e cercato, voglia rappresentare un ritrovato slancio nel rischiare l’amore. Penso sia un personalissimo inno contro il pregiudizio e la violenza delle parole, delle azioni. Tutta la vita si gioca sulla possibilità o meno di rischiare l’amore, di metterci la faccia, di essere generosi anche se si resta delusi.

 

Riconoscersi negli occhi di un'altra persona, ci porta a creare un mondo vero fatto di emozioni da toccare, di dialoghi da intessere. Il pregiudizio, la nostra guerra preventiva, ci consente solo una visione in bianco e nero. Io amo da morire le sfumature. Questo mondo a volte mi devasta. Mi ferisce il mondo in bianco e nero, per nulla romantico e prezioso come le fotografie di una volta. Ho bisogno ancora degli occhi, di toccare, parlare, di cercare l’altro per capire i minimi sistemi e ascoltare il respiro affannato del mondo.

 

Valeria Manieri

(da Notizie radicali, 9 ottobre 2007)


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