«Circola più droga a Grosotto che in stazione centrale a Milano», scriveva un mesetto fa il Corriere della Sera. Con le dovute proporzioni, credo sia vero. Purtroppo sono state necessarie la tragica morte di una ragazza finita su tutti i giornali e una serie di fatti ancora non chiari per aprire gli occhi a molti di noi: l’uso di sostanze stupefacenti in Valtellina è un problema. Anzi, è il problema. E va affrontato.
Non che la questione riguardi solo Grosotto, intendiamoci. Al contrario, Grosotto è il pretesto per ampliare il discorso a tutta la provincia: da Livigno a Colico l’antifona è (tristemente) sempre la stessa. Neanche un anno fa la squadra mobile della questura di Sondrio lo diceva senza girarci troppo attorno: la piaga sociale della Valtellina è l’eroina. A scadenza quasi quotidiana i nostri giornali parlano di “arresti per possesso di stupefacenti”, “condanne e processi per droghe” e “nuove sostanze in circolazione”.
E dire che non si tratta di una realtà recente. Basta tornare un po’ indietro con la memoria per rendersene conto: di episodi legati al mondo della droga sulle nostre montagne ce ne sono sempre stati. Nel 1992, tracciando il bilancio dell’anno giudiziario, l’allora procuratore capo della Repubblica di Sondrio, Francesco Saverio Cerracchio, fu sufficientemente chiaro riportando semplicemente la casistica: 4 decessi per overdose, 2 tossicodipendenti morti di Aids, numerosi sequestri di droga che impegnarono, per mesi, polizia, carabinieri e guardia di finanza, 200 procedimenti penali a carico di spacciatori, 300 persone denunciate o finite in manette per reati legati alle sostanze stupefacenti. Tutto questo accadeva 22 anni fa: non proprio ieri, ecco. Da allora la situazione è probabilmente solo peggiorata. Fare orecchie da mercante e metter la testa sotto terra non risolve granché. È il momento di dirlo senza troppe paure.
La droga che circola nei nostri paesini è un allarme sociale, senza dubbio. Che si serve anche di pusher minorenni (è notizia di qualche settimana fa) e di spaccio nelle scuole (idem). C’è chi pensa sia colpa di poliziotti e carabinieri che non vigilano a sufficienza. Ma ammesso e non concesso che una politica di lotta dura e di proibizionismo intransigente funzioni (cosa che – mi pare – sia stata ampliamente smentita dai fatti, anche internazionali), questo sarebbe un passo ulteriore. Prima viene la consapevolezza del problema. Prima viene la presa di coscienza della situazione. Prima viene la percezione di una richiesta d’aiuto.
Appunto. Ma noi, noi genitori fratelli amici, cosa abbiamo fatto per questi “ragazzi problematici”? Poco, o niente. Ci siamo scandalizzati trovando le siringhe nei boschi. Se le forze dell’ordine hanno arrestato qualcuno abbiamo girato la testa e alzato le spalle: non era un nostro conoscente, sia mai, nel migliore dei casi ci siamo spinti a dire che non-pensavamo-potesse-fare-cose-simili. Però abbiamo puntato il dito contro i “tossici del parco”, giovani senza un futuro e con un presente che ci faceva più paura che compassione. Li abbiamo guardati schifati, disgustati, sdegnati. Pensando che fossero loro la pietra dello scandalo, la causa di tutti i mali. Senza capire, invece, che il problema poteva arrivare dentro le nostre case. Perché è più facile criminalizzare gli altri piuttosto che sentirsi coinvolti. Eppure la verità è che lo siamo e, finché non avremo il coraggio di sollevare una volta per tutte il velo dell’ipocrisia collettiva su questo argomento, siamo destinati a rimanerlo.
Claudia Osmetti
(da 'l Gazetin, ottobre 2014)