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“In gran segreto” a Ferrara: quinto ospite Roberto Uberti, 7 settembre 2012 
Intervista a cura di Matteo Bianchi e Alberto Amorelli
04 Ottobre 2012
 

La vita comincia con una parentesi

che si chiude e termina

con una che si apre;

come i respingenti del treno,

il vuoto d’aria tra due carrozze.

Roberto Uberti

 

 

 


– Che valore ha per lei la parola poetica?

La parola poetica incarna per me la potenza creatrice del linguaggio. Il linguaggio – sono convinto sia così – deve essere nato prima dell’universo. Un universo senza un linguaggio che lo parli è infatti impensabile. Se dunque il linguaggio preesiste all’universo, significa che il linguaggio è la forma di creazione per eccellenza, e la parola poetica ne è un’espressione.

 

– Nella prefazione di Urgimi addosso (L’arcolaio, 2011), di Silvia Comoglio, il vuoto del vivere è contrapposto «a superfici di molteplice portata e dimensione per compensare il limite del dire e del dirsi», una mancanza di significati che lei riempie di rumore e disordine. Dunque il senso del reale è per chi osserva inafferrabile, non ci è dato di svelarlo?

La realtà è molteplice. Esistono tante realtà quanti sono gli esseri viventi. Gli antichi, dicendo “tot capita, tot sententiae”, esprimevano bene questo concetto. Ciascuno può soltanto tentare di descrivere ciò che percepisce della realtà. Al momento, per quanto ne so, nessuno possiede tutto il senso del reale. Esso rimane nascosto e ancora inafferrabile.

 

– Quanto è importante per la sua poetica decostruire per poi ricostruire i concetti, e anche singole parole? Nel Prologo di Così parlo Zarathustra, Nietzsche sosteneva che «Bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante»: il caos è indispensabile alla sua vena creativa?

Il caos è indispensabile in qualunque circostanza. Senza caos non sarebbe possibile costruire nulla perché tutto sarebbe già perfettamente costruito. La vita stessa è caos, in un faticoso e doloroso divenire verso un traguardo di perfezione. La creatività poetica altro non è che la descrizione del caos.

 

– Cosa intende per «caso», «casualità», nel momento in cui affida la composizione di un verso ad un programma di poesie al minuto sul suo sito?

Mi piace pensare che “caso” sia un anagramma di “caos”. L’esperimento delle “poesie al minuto”, ossia l’idea di sviluppare un generatore automatico di poesie (l’idea non è nuova ma volevo perfezionarla) nacque proprio pensando a quanto la realtà sia fortemente condizionata dal caos e dal caso. Il cuore tecnico del software che governa le poesie al minuto è basato sull’istruzione “random”, a seguito della quale si aprono infiniti “if”. Random e if: due elementi portanti tanto dell’informatica quanto della vita.

 

– Un suo verso recita «tutto mi disappartiene»: forse perché non possediamo davvero le “cose”, ma soltanto la nostra proiezione idealizzata di esse?

È così. Quando si fa strada la consapevolezza che la realtà è mediata dai mille filtri di cui ciascuno di noi è portatore (filtri fisiologici, neurologici, culturali, sociali, familiari, ecc.) e che, dunque, essa non altro non è che una proiezione distorta di qualcosa che non possiamo ancora vedere, ecco apparire anche il senso della disappartenenza. È uno smontare l’illusione di possedere qualcosa che invece non è ancora dato possedere.

 

– «Cucio e scucio» (pag. 15), «Vuoto e vita» (pag. 16), «Imperfetta perfezione» (pag. 18), «Felicità e dolore» (pag. 26), l’antitesi e l’ossimoro sono le figure retoriche più presenti nel suo Urgimi addosso per inquadrare la realtà. Un punto di vista mai coerente e lineare, totalmente relativista, per cui tutto vale quanto il suo contrario… ce ne parli.

Ossimori e antitesi sono le figure retoriche più adatte a cogliere il senso di una realtà solo parzialmente percepita, come dicevo prima. In questa realtà trovano uguale cittadinanza sia un punto di vista sia il suo contrario. Non è dato al poeta dire quale sia quello giusto. Compito del poeta è presentare il punto di vista e il suo opposto, passando per tutte le sfumature intermedie.

 

– «Urgimi», «Brulicarmi», «Cascami», «Nuotami», ci ricordano l’uso che del riflessivo ne faceva il grande Pessoa: testimonia un lasciarsi vivere dalle esperienze e dalla presenza altrui, piuttosto che agire, subire per forza di cose; quasi la realtà le gravi «addosso», quasi sia troppo ingombrante per gestirla… ce ne parli.

Al contrario: l’uso del riflessivo esprime un bisogno profondo di entrare in contatto con la realtà, quasi un invito a esserne intrisi. Un bisogno che nasce proprio dal tentativo – anche se consapevolmente destinato a un mai completo successo – di conoscere la realtà in tutta la sua autenticità.

 

– Prendendo in considerazione le prefazioni inverosimili alle sezioni di Dei bui (L’arcolaio, 2012) - firmate da pseudonimi - per lei che valore ha nel tempo la parola scritta, affidata ad un supporto? La prima prefazione, però, può sembrare veritiera, originale: è una captatio benevolentiae? Il lettore per fidarsi di un libro necessita di essere rassicurato, a maggior ragione quando si tratti di poesia?

Nel mondo letterario le prefazioni sono veicoli pubblicitari. Ogni libro ha bisogno di un testimonial autorevole che dica a tutti “vedete questo autore quanto è bravo: leggete, leggete”. E via con dotte disquisizioni sulla tecnica letteraria utilizzata, sui significati e sui metasignificati, sul valore e sul controvalore dell’opera. Ebbene, io mi sono semplicemente divertito a ironizzare su tutto questo costruendomi cinque eteronomi, un po’ come Pessoa. Solo che, a differenza di Pessoa, i miei cinque eteronomi vivono in epoche diverse (Christine Brun-Leda ed Emiliano Giacobini sono contemporanei, Ignazio Segnafonte e Donna Jahrwells vivono nel futuro e Juhxa O. Ximoto vive nel passato) e, dalle epoche in cui vivono, hanno prefato il mio libro. Inoltre, a differenza di ogni prefatore che si rispetti. Segnafonte stronca le mie poesie anziché esaltarne il valore. Devo dire che inventare un prefatore irrispettoso mi ha piuttosto divertito.

 

– Abbiamo considerato il manifesto più recente della sua concezione di esistenza la poesia Opponibilità a pag. 19 (da Dei bui), per la quale come pollice, opponendosi alle altre dita, distingue l’uomo dalla scimmia, così tutto il resto deve opporsi a qualcos’altro per definirsi… ce ne parli.

Il concetto è espresso bene dal discorso fatto prima sulle antitesi e sugli ossimori. Qualunque cosa può essere conosciuta e riconosciuta solo grazie al suo opposto. Si ama e si apprezza la luce per confronto con il buio, l’amore per confronto con l’odio, il freddo con il caldo e così via. Un dipinto monocolore non avrebbe senso: è solo l’equilibrio tra ciò che si oppone – chiari e scuri per esempio – a rendere tutto sensato.

 

– Lei usa scarsa punteggiatura per dare un senso di urgenza e l’impressione che precipitino le immagini e le situazioni raffigurate?

Forse sì. Ma non lo faccio apposta.


Foto allegate

Ferrara, 07/09: Silvia Comoglio, Gianfranco Fabbri, Matteo Bianchi, Roberto Uberti, Alberto Amorelli
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