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Patrizia Garofalo. Ricordo di Virgilio Piñera
07 Settembre 2012
 

La dittatura e qualsiasi regime totalitario è un mostro che ha paura di se stesso, più o meno questo, quello che scrisse su La pelle Curzio Malaparte, è un mostro coeso, compatto, un parto impuro che ha paura di se stesso e che quindi, per rimanere vivo, necessita che niente sia diverso da lui e per questo genera massacri, prigionie, sospetti, accuse, crea sistemi di dilazioni, ostracismi ed espulsioni. Da esso si sono sempre generati fenomeni di decadimento, di catastrofe culturale oltre che umana e rinascenze difficili o quasi impossibili. Cancella vivi e morti e, al funerale di Virgilio Piñera, i giornali non scrissero niente e noi, come sempre, ci adeguammo.

Fortunatamente la memoria resiste, vestale eterna anche alla morte e ci riporta, dopo accurate e laboriose ricerche, lapidari scritti dell’autore, forte e resistente antagonista del regime.

«[...] non è in mio potere negarmi/ mi hanno annunciato che domani/ alle sette e sei minuti della sera mi trasformerò in isola/ [...]». Terra e mare, fusione ma anche eterno conflitto del popolo cubano, tra chi vuole comunque restare sognando il viaggio “che salvi” e chi tenta il mare con il cuore appesantito da quello che lascia. La metamorfosi di Virgilio Piñera ricompone i due elementi; la gambe saranno terra e mare, le braccia vedranno crescere germogli, arbusti e radici che guarderanno il mondo con occhi di rosa e la sabbia sul petto saprà di mare.

Il poeta, enorme e silente colosso lascerà parlare il vento, eco di mille voci e dispensatore di parole ingabbiate dal silenzio.

Sdraiato sulla schiena avrà la pelle di terra e da quella posizione potrà guardare “intensamente” l’orizzonte. Diventato e tornato “altro da sé” chiede se questa sia la verità. Quest’ultima, forse, consiste nel fondersi con la terra e il mare, stendere il suo immenso animo fisicamente su ogni cosa che ha amato, e questa è rinascenza, premio al dolore, memoria imperitura, richiesta ululata dal vento e sparsa ovunque, di libertà.

Il tema dell’acqua e della terra tornano con diverse metonimie anche nei testi successivi come a fotografare il suo desiderio di totalità, di possesso e di abbraccio di tutta la sua isola di cui avverte anche gli odori nauseabondi, il fetore, l’acqua che corrode come un cancro in melmosità fangose che configurano la morte nella «deglutizione di glorie passate» «si può morire di luce come di peste», di quell’abbaglio di luce che la letteratura italiana conosce in Montale; l’uomo segue una muraglia con gli occhi chiusi per il troppo sole, in un meriggio in cui la canicola non concede tregua al cammino, fiancheggiato da una muraglia senza fine e insormontabile. «Dove incontrare in questo cielo senza nubi un tuono/ che svegli i dormienti di un popolo che non ha volto/ come la luce o l’infanzia?»

In un pessimismo cosmico che invade il poeta, anche il cielo è lontano e comunica con l’uomo solo quando, gocce di pioggia bagnano il corpo.

Sotto gli odori, sotto la realtà, è evidente il surrealismo di Piñera nella ricerca di un ego profondo più del mare e grande come il cielo, il guardare dentro la coscienza e farsi peso dell’isola lasciando testimonianza di vita e libertà e amore mentre se ne avverte fortemente il peso fino agli abissi. Borges, che Piñera conobbe, scrive esattamente nell’Aleph: «non c’è altra realtà oltre la scrittura per contenere il nostro emozionale» ed esso è dentro di noi, si fa parola, si condensa, si trasforma nel sogno che pur impossibile, è sempre vissuto e descritto con la fisicità che appartiene al vero. Ed è la terra, nel suo archetipo di forza generatrice, che attrae Piñera in una desiderata metamorfosi dalla quale si irradiano immagini apparentemente disarticolate ma che in realtà confessano come il poeta voglia farsi un tutt’uno con la sua isola. Accompagnando la sua profonda liricità da un velo di ironia, di sorriso sulle vicende umane, scrive: «ho imparato a nuotare sull’asciutto…. Non c’è timore di affondare… non voglio negare che nuotare nell’asciutto abbia qualcosa di simile all’agonia». È come se la terra fosse un ancoraggio sofferto ma meno anonimo della morte per mare, si può ascoltare la musica che esce dalle finestre e guardare gli insetti che strisciano per terra (chi saprà mai di quali insetti parlava?). Per rassicurare gli amici della sua scelta di voler nuotare sulla terra, offre la bellissima immagine di se stesso che affonda sotto… sotto… sotto fino a trovare l’acqua per regalare loro dagli abissi, un pesciolino. Il poeta, ormai colosso gigantesco, fatto di terra della sua terra, mangia la montagna, ha deciso di ingoiare i suoi mille metri piano piano fino a quando qualcuno parlerà di disastro ecologico. Terrà questo segreto per sé perché se lo dicesse al vicino, questi «riderebbe a crepapelle o mi prenderebbe per pazzo». Da qui si evidenzia in Piñera quella che Pirandello chiamava “terza dimensione”, il guardarsi dal di fuori, poter anche ridere di sé, lasciare la parola comune e omologata agli altri che vedono solo una verità ed in genere la più consolante e trattenere la follia come dono di libertà, di pensiero e di parola. La morte degli uccelli raggiunge un livello concettuale e doloroso e lirico e cosciente nell’apparente asimmetria della parola che poche volte la letteratura ha conosciuto. La verità che si evince è come gli uomini cerchino invano di dare una spiegazione a tutto, per paura di avere paura, per incapacità di accettare il reale e di combatterlo o perlomeno conoscerlo.

Ogni interpretazione è ineffabile e ogni fatto è tangibile”.

L’ecatombe era un sacrificio voluto, di molte vittime presso gli antichi greci per un Dio che prometteva di risolvere guerre disastri ed epidemie. Nel testo che analizziamo la finzione dell’arte (cioè la mediazione che avviene con la scrittura) riporterà gli uccelli a volare, perché la cultura è il vero demiurgo e solo la morte della libertà di scrivere e pensare, condurrà gli uccelli a «cadere abbattuti in terra».

 

Patrizia Garofalo


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