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Gianfranco Cordì. “Sul leviatano” Le considerazioni di Schmitt
07 Dicembre 2011
 

Nel 1986 era uscito per le edizioni Giuffrè di Milano il volume Scritti su Thomas Hobbes di Carl Scmitt a cura di Carlo Galli. Il libro si componeva di una «Introduzione» (scritta dallo stesso Carlo Galli), di una «Nota bio-bibliografica», di cinque saggi (composti da Schmitt tra il 1937 e il 1965) e di un apparato di note. Nel complesso, in quell’occasione, veniva presentato - a dire il vero con una certa completezza - l’intero approccio del giurista di Plettenberg nei confronti del filosofo di Malmesbury. Ovvero: l’intera concezione che Carl Schmitt ebbe dell’opera di Thomas Hobbes in relazione a diversi passaggi cruciali non solo della propria vita intellettuale ma anche dello Stato moderno e dello stesso studio dell’opera dell’autore del De cive compiuta nel corso dell’intera sua esistenza.

Oggi, a distanza di quindici anni, con un colpo di genio dell’astuzia commerciale e della malafede intellettuale, la casa editrice Il Mulino pubblica un piccolo volume dal titolo Sul Leviatano (2011), sempre ad opera di Carl Schmitt e con una «Introduzione» affidata, anche questa volta, a Carlo Galli. Qual è la sostanza di questa operazione? Si tratta della raccolta di due dei cinque saggi che componevano il volume della Giuffrè (e precisamente de: «Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes» e «Il compimento della riforma») uniti ad una «Appendice bibliografica» che era assente nella primigenia edizione. Se si considera che l’«Introduzione» di Galli, a fatica, rastrella e mette assieme alcune ideuzze che il docente di Storia delle dottrine politiche (presso l’Università di Bologna) aveva già, peraltro, espresso in più di una occasione (oltre che nella stessa «Introduzione» di quindici anni fa), che i due saggi di Schmitt sono identici nella traduzione primitiva ed in quella odierna e che le note a piè di pagina sono esattamente le stesse nelle due edizioni, se ne deve concludere che il lettore di quest’opera (che, per esempio, avesse già acquistato il testo del 1986) comprerà questo libro del Mulino solamente per l’inedita «Appendice bibliografica». Ovvero per «le indicazioni bibliografiche complete dei testi citati da Carl Schmitt nei saggi qui raccolti». Per tutte le altre tipologie di lettori (che per esempio non fossero in possesso del libro del 1986) vale in ogni caso l’assioma che vede in questa operazione editoriale solamente il retrogusto dell’offesa e della presa in giro. Ma a parte ciò: il libro esiste e bisogna dirne.

La sostanza dell’interrogazione che i due scritti qui raccolti pongono è la seguente: che cos’è per Schmitt il Leviatano di Hobbes? Ovvero: quali sono le caratteristiche che l’autore del Nomos della Terra ravvisa nell’opera capitale del teorico dell’assolutismo politico? Non siamo dunque di fronte alla disamina del rapporto intercorrente tra Schmitt e Hobbes (cosa che poteva verificarsi e realizzarsi scorrendo le pagine del volume della Giuffrè) ma di fronte a un problema più piccolo, ridotto, più dettagliato. Schmitt ci introduce all’interno della propria visione del Leviatano attraverso alcune mosse che fanno risalire, da una parte, la natura di tale «artificio politico» sia alle raffigurazioni del «mostro biblico» nelle arti e nella tradizione ermeneutica veterotestamentaria sia nella vera e propria storia del pensiero politico visto sempre in relazione alla dialettica tra Potere Temporale e Potere Spirituale e alle lotte intestine all’interno della Chiesa. Apprendiamo subito che il Leviatano è «l’immagine più forte e più potente, che fa saltare i confini di ogni teoria e di ogni costruzione». Ed anche che «il Leviatano come simbolo dell’unità politica non è un qualsiasi corpus o un qualsiasi animale, ma è un immagine tratta dalla Bibbia, e precisamente dall’Antico Testamento, e rivestita, in molti secoli, di interpretazioni mitiche, teologiche e cabalistiche. Il Leviatano è il mostro marino che nel libro di Giobbe (capp. 40 e 41) è indicato come l’animale più forte e più indomabile». In sostanza, Schmitt ci avvisa che «poiché Dio, nel libro di Giobbe (41,24), dice del Leviatano: nessuna potenza sulla terra gli può essere paragonata. Questa è l’unica spiegazione autentica, fornita dallo stesso Hobbes, dell’immagine del Leviatano». Cioè, continua ancora il giurista tedesco: «dai dati testuali emerge dunque che il significato del Leviatano… consiste solo nel fatto che il Leviatano… illustra la più forte potenza terrena come un animale le cui forze preponderanti tengono a freno ogni forza inferiore». Abbiamo quindi subito a che fare con una rappresentazione dell’autorevolezza, del dominio, del vigore e della signoria. Ma, in sé e per sé, il Leviatano che funzione ha nella filosofia di Hobbes? Risponde ancora Schmitt: «il terrore dello stato di natura fa riunione gli individui pieni di paura; la loro paura sale all’estremo: scocca una scintilla della ratio e improvvisamente davanti a noi si erge il nuovo Dio». Tale «nuovo Dio»: «è il Dio mortale che porta agli uomini pace e sicurezza: su questa base – e non certo in forza di un “diritto divino dei re” – esige obbedienza incondizionata». Due cose dunque caratterizzano concretamente il Leviatano: esso risolve una situazione di disordine (la quale è la causa stessa del suo generarsi) e nello stesso tempo «esige obbedienza incondizionata»: e questo è l’effetto del suo stesso prodursi. Per apportare nel mondo degli uomini «pace, sicurezza e ordine» questo mostro inumano deve necessariamente richiedere sottomissione, asservimento e dipendenza. Nel senso derivato che tale soggetto politico possiede (provenendo dallo «stato di natura» sia pure non «attraverso» un patto fra gli uomini, ma «in occasione» di esso: ovvero nello stesso momento in cui si rende evidente l’impossibilità di una convivenza e la necessità di una soluzione dell’anarchia e dei conflitti) il Leviatano è pienamente un’entità di secondo livello. Esso interviene, nel pensiero di Hobbes, non allo stadio naturale (quello della guerra e della reciproca diffidenza) ma allo stadio artificiale di una costruzione che trova nel suddetto «stato di natura» il proprio punto di avvio.

Ecco così che la filosofia di Hobbes parte, o meglio potrebbe partire, da una considerazione realistica delle cose per innalzarsi ad un tentativo idealistico di descrizione della realtà. Abbiamo detto «idealistico» perché, evidentemente, questo Leviatano rimane pur sempre un concetto, qualcosa di astratto, un’entità teorica. Ma non siamo in presenza di pura teoria. Il contenuto di questo concetto, infatti, è ancora una volta da una parte realistico e dall’altra del tutto generale. Il Leviatano da una lato garantisce la sicurezza (e dunque scioglie un problema pratico che attanagliava gli uomini in una risposta conseguente e soddisfacente) e dall’altro lato chiede obbedienza agli esseri umani: ed in questo senso si manifesta pienamente per quello che è: potere, comando, sovranità, governo, controllo. Si manifesta cioè nella sua essenza che è quella di essere, prima di tutto concetto (e quindi idea). Il Leviatano in fondo è un’astrazione che non è una pura fantasticheria (risolve infatti un problema concreto). Ma l’interpretazione schmittiana di Hobbes non finisce qui. Perché il filosofo di Malmesbury ha scelto una connotazione mostruosa per indicare il suo Leviatano? Perché l’ordine, la misura, la disciplina e la ragione devono assumere una conformazione orrida, strana e deforme? Schmitt risponde che, a suo giudizio, l’uso hobbesiano dell’immagine del Leviatano è «un’idea letteraria e semi-ironica, generata dal buon “houmor inglese”». In realtà l’interrogativo rimane: perché l’autorità sovrana, l’autorevolezza stessa, la supremazia e la risolutezza debbono avere caratteristiche di orrore ed inumanità? Proviamo a riflettere su questa cosa solo un attimo. Il mostro, per Hobbes, non è quello naturale ma è quello artificiale. Non è lo «stato di natura» - dove pure la condizione è pessima e per certi versi intollerabile - ad essere veramente mostruoso. È invece lo «Stato civile» dove la paura che domina è quella provocata dall’unico soggetto interessato piuttosto che quella vicendevole – propria e altrui – subita dagli uomini in perenne lotta fra di loro. La situazione del Leviatano dovrebbe essere quella della concordia, del bene e della verità ed è invece quella dello spaventoso, dello strano e del ripugnante. In realtà parrebbe che l’intendimento di Hobbes sia in questo caso (con il paragone Sicurezza-Mostruistà) quella di interpretare una visione scettica della teoria politica. In altre parole: la stessa soluzione che egli prospetta al disagio ed alle difficoltà di convivenza degli uomini è, ai suoi stessi occhi, orribile e brutale. Sì, forse ha ragione Schmitt, forse c’è dell’ironia in questo, ma probabilmente alla base c’è anche un senso di inadeguatezza, di sconfitta, di manchevolezza avvertita nel proprio stesso operare di studioso di cose politiche da parte di Hobbes.

L’affinità tra Schmitt e l’autore del De homine, a questo punto, appare chiara: entrambi sono degli scienziati politici. Entrambi si trovano alle prese con gli stessi problemi. Il perimetro di questo «callido» volume di Schmitt Sul Leviatano è dunque pienamente percorso e tracciato. Certo i problemi comunque ci sono. Le analisi di Schmitt non sono dei veri e propri studi tecnici approfonditi. Sono più che altro una serie di illuminazioni ed intuizioni messe assieme più o meno artatamente con momenti meno interessanti, superflui, alcune volte anche arbitrari. Ma comunque riguardo all’oggetto in questione (il Leviatano): Schmitt riesce a dire alcune cose di sicura novità che avrebbero meritato ben altro approfondimento e ben altra cura. Una di queste illuminazioni è la seguente: «è certamente vero che la paura collettiva degli individui tremanti per la loro vita chiama sulla scena una nuova potenza, il Leviatano, ma più che creare il nuovo Dio, quella paura lo evoca». Perché Schmitt non va più a fondo in casi come questo? Quella paura che solamente «evoca» il «nuovo Dio» avrebbe meritato una considerazione ulteriore. Si apriva a questo punto tutta una possibile considerazione e della specifica nascita del Leviatano (in quanto riesumato e ricordato dalla paura originaria) e sulla natura stessa della paura incapace di «creare» lo Stato ma solamente di richiamarlo in vita. Ma Schmitt, probabilmente è interessato ad altre cose e la lettura di questo volume del Mulino finisce qui.

 

Gianfranco Cordì


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