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In libreria/ Patrizia Garofalo legge Félix Luis Viera, “La patria è un’arancia” 
Çlirim Muça e Gordiano Lupi presentano il libro sabato a Castiglioncello (LI)
04 Agosto 2011
 

«L’opera d’arte è infinitamente più grande di chi la compone e quello stesso, nel produrla, ubbidisce a sollecitazioni che non sono nel suo povero corpo. Ogni artista vorrebbe fare un capolavoro al giorno e lo fa, invece, quando meno se ne accorge; a questo punto viene da chiedersi: “chi comanda allora?”. L’arte è Dio stesso che continua la sua opera attraverso l’uomo, nel quale ha l’interprete intelligente e la parola». (Salvatore Fiume, La risata del fauno)

 

 

Mio padre portava ogni sera la patria nella borsa del pane…

Mia madre muore ogni sera nei miei incubi ad occhi aperti…

Io mordo solo il flauto, mastico il fiore…

 

 

Desachado” indica una melanconia dolorosa che pur cela e prelude nella coscienza della solitudine, un’avvertibile ipotesi di ricerca. Heidegger indicherà con questa accezione il termine, in realtà intraducibile, una percezione più dilatata ed ampia di nostalgia, una meditazione e un ascolto dell’io nel silenzio, dilavati dal dolore impetuoso e dall’immediatezza del dramma.

Da questo sentire in Viera nasce un poetare ampio, aderente ai pensieri, trascinante, commosso, affabulante che amplia in un disvelamento cosmico, la crudezza della sorte contingente. Dalla deriva del reale la sua poesia si offre a cogliere un irreversibile dolore umano persino nelle piante «…/nel giardino irrigano la polvere nell’acqua/ e il prato e i fiori, vomitati dalla polvere/ sembrano sorridere per un istante, sembrano tirati fuori dal sepolcro per un istante/ e la terra emette un breve fremito d’allegria/ prima che la polvere torni a schiacciarla» e negli animali... «e il cane sembrò comprenderti/ comprese la sua cagna umanità, la tua umanità canina,/ e quasi ti baciò come si bacia un cane fratello/ e diventaste amici» e nel perdono anche per ideologie sbagliate e sogni irrisolti, vanificati e strappati via dalle menzogne: «dopo un sogno vano/ è naturale che oggi ci sentiamo spaventati./ Fu un errore/ che la Storia registrerà come il peggiore e al tempo stesso il più candido./ Perdono».

Il poeta interloquisce con un costante “tu” di riferimento come se un colloquio continuo e mai sospeso concedesse maggior equilibrio alla sofferenza che, nello sradicamento dalla propria terra, sprovincializza il reale e sottolinea una solidale denuncia della storia...

«Si fermerà il tuo cuore nella Gran Valle/ lasceranno volare il tuo cuore fatto cenere/ come un uccello diventato cenere/ sopra l’immensità del Golfo/ fino alla terra dove una volta cantavi?» Il volo delle ceneri che naufraga negli abissi è comunione con l’infinito e non emana miasmi di putrescenza ma di ritorno all’archetipo materno nell’universalità del tempo e della memoria.

La patria è un’arancia è opera che si medita in silenzio come se si sfogliasse insieme all’autore, un album di ricordi che impregnano la geografia dell’anima, trasudano la faticosità della vita e lacrimano nella grande umanità con cui Viera si avvicina alla sofferenza altrui. Sembrano volare colombe a circondare quasi in un manto mistico la ragazza uccisa, violata nel corpo, straziata nell’anima, la nonna torna nell’amarezza di sogni naufragati, inghiottiti nella silenziosità del suo sguardo, «Nonna Isabel, oggi so che ti ho voluto bene meno di quel che meritavi:/ Se possibile, là dove sei, perdonami»; c’è pietà persino per chi crede di essere vivo solo per il «pernottare nell’opulenza», e l’acquario forse, viene a configurare un apparente stato di benessere, inamovibile appannaggio dei ricchi «noi siamo stati così poveri, non abbiamo mai avuto, per esempio, un acquario». Nelle parole di Viera è costante, quasi ossessiva e quindi fortemente connotativa, l’immagine dell’acquario negato ai poveri e donato a chi non saprà goderne il silenzio, la tranquillità, l’osmosi tra realtà e mondo sognato e la catarsi dell’acqua. Ecco quindi che vengono a configurarsi due scenari di ripresa in diretta con il dolore condotti da versi lunghi che si spandono nelle strade di una città immensa e di cui Viera è desolato cantore «Quando nacque la bambina/ come un pellegrino andavo in cerca di legni vecchi,/ fili di ferro abbandonati, che qualche nobile stella avesse/ dimenticato nella sua caduta/ era,/ di nuovo,/ il poeta a portare la croce/ ...tu,/ poeta,/ credo, per la prima volta,conosci la ferita/ di quel contorno plastico/ che divide in due la speranza».

La commossa stanza di ripresa è quella del cuore del poeta, del suo peregrinare, del suo esilio, della finestra che guarda la vastità di una città in cui sembra non accadere niente «mentono i quotidiani… ancora non è successo niente,/ assolutamente niente» dove i supermercati e le metropolitane brulicano e ci si perde, non ci s’incontra ma è come se tutti fossero dentro «un'alluvione di vicoli, l’alluvione dei frutti, verdure, vegetali, l’alluvione/ di verdure, di voci come il coro che a volte formano i rospi/ l’usignolo, il corvo/ …/ non c’è via di scampo, non c’è via d’uscita».

Una sola, un tentativo da fare, una speranza da accendere… forse «quel che cerco/ è un pezzettino d’anima, mezzo chilogrammo d’anima, un quarto di chilogrammo/ d’anima, un bastardo/ pizzico d’anima quanto costerà?»

Quello che Bergson chiama supplemento d’anima e che penetrante accompagna il testo dal suo incipit, frammento di una nota, del 1992 di Manuel Parrado, ricevuta una settimana prima che si suicidasse. E Viera prosegue:

Il poeta disperatamente comincia a cercare con lo sguardo una lacrima

deve esserci una lacrima

nel pavimento,

in qualche borsa

in qualche camicia

in qualche seno,

in qualche corrimano

in qualche occhio,

il poeta è sicuro che solo una lacrima può dargli la forza di arrivare alla fine del viaggio

E colmi di lacrime inghiottite e di grammi d’anima arrivano dolenti i versi per i figli lontani, i ricordi delle foto scattate troppi anni prima con una pellicola faticosamente acquistata, la loro mancanza diventa canto di dolore che misura l’assenza: «il peso di tutte le guerre, mi ha ucciso mille volte/ un milione di volte ho visto il mio sangue scendere per le condutture». In queste liriche, il poeta si riappropria dell’Io e nella reciproca corrispondenza segna il filo della continuità e della parola in un dialogo d’amore. «Mio figlio è biondo come una spiga dorata»; l’immagine odora di grano, dipinge il giallo dei covoni, traspare i colori limpidi di un temporale che riporta una luminosità intensa, «ci scriviamo lettere con le regole del gioco che verrà». La voce della figlia diventa eco nella solitudine immensa di una città che lo vede solo e disorientato e traspare negli occhi del colibrì che ogni mattina lo saluta alla finestra «ho visto la sua voce/ ho ascoltato i suoi occhi». Il verbo è capovolto rispetto all’oggetto a cui apparterrebbe ma «nei violini che dettano la penultima lacrima» cogliamo come dal linguaggio scomposto dalle regolari accezioni, si avverta la totalità della parola poetica e come l’amore nasca e viva nell’abbraccio di verbi, parole e lacrime e musiche suonate a più mani dal grande pianoforte della vita.

Lentamente nell’opera di Viera viene a configurasi, nella miriade di immagini e sentimenti quella che maggiormente avvicina il lettore al filo conduttore del testo. La sua terra diventa donna amata, nel corpo e nell’anima con una pregnanza che avvolge tutti i sensi e trasporta nella passione, sessualità, sogno, penetrazione di corpi, sodalizio infinito per non morire. «Hai conosciuto una donna/ che possiede un acquario/ e che di notte si culla con il vento lunare/ …/ tu eri lontano dalla patria/ e i seni di questa donna te la fecero trovare/ e credo ti amasse come si ama/ uno spettacolo per lungo tempo ammirato e preteso». L’associazione del sesso femminile con la torta che si desidera da bambini e che si gusta prima con la vista e l’odore che con il palato, fanno di Lei una creatura totale e consolatoria: il poeta non avrebbe mai voluto lasciare la sua terra così come ora mai abbandonerebbe il calore del ventre amato, rifugio, conforto e completezza. Una grande e potente mano che doveva saper seminare il nettare nella pietra le ha scolpito i seni, gli occhi neri vincono la notte e sconfiggono il dolore. In un crescendo di accusativi alla greca, l’immagine femminile si amplia, diventa terra, madre, generatrice, patria di una fisicità cantata: «un giorno gli uomini si ameranno/ in modo tale che la patria comincerà in un prato e terminerà nelle gambe di una donna/ e nelle mani di un uomo/ sopra queste gambe». Il sesso che, diventato prato, già bagnato di rugiada prima di essere penetrato, è un corpo toccato da Cristo, sacralizza l’amore nell’eternità, accompagnerà il giorno, seguirà con gli occhi bruni, il sole al tramonto e resusciterà all’alba.

Diventerà arancia, la patria, succosa, aperta, luminosa come giorni senza tramonti, curatrice di ferite, dolore e lontananza.

l’odore della Patria è l’incenso che brucia nelle strade conosciute.

la patria è l’ombra di una ceiba,

una bella donna che passa

la nonna che ti offre il caffè alle tre del pomeriggio

«Neanche gli angeli troveranno il punto dove l’arcobaleno naufraga». Intende forse per “naufragio”, il silenzio meditante della parola, essa potrà cambiare veste, cammino ma sempre, per il grande poeta, citaredo in cerca di cuore, scaverà l’anima, ne berrà l’infinito e narrerà di come l’arancia “deflagri” tra le mani del poeta in cerca dello spicchio succoso per profumare anche tradimenti, defezioni ed esili se nascono per una terra d’amore.

 

Patrizia Garofalo

 

 

Sabato 6 agosto 2011, ore 21:00

Pensione Signorini, Castiglioncello (LI)

 

Çlirim Muça di Albalibri, poeta albanese in Italia

e Gordiano Lupi

 

parleranno di Cuba, Yoáni Sanchez, narrativa cubana

 

e presenteranno

 

La patria è un'arancia di Félix Luis Viera 

 

 

Félix Luis Viera

La patria è un'arancia

Traduzione di Gordiano Lupi

Commento critico Patrizia Garofalo

EIF, pagg. 200, € 15,00


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