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Yoani Sánchez. Una nazione immobile
31 Gennaio 2011
 

Sette della mattina e da almeno un’ora la fermata dell’autobus è affollata di persone. Un veicolo diretto verso L’Avana Vecchia passa oltre senza fermarsi lasciando dietro di sé una scia di grida e gesti d’ira. Alcuni di coloro che vociferano decidono di fare il percorso a piedi, altri si rassegnano e spendono i loro ultimi dieci pesos per prendere un tassì collettivo. Molti di quei frustrati passeggeri oggi arriveranno in ritardo al loro posto di lavoro.

Non si tratta di una scena insolita, in ogni municipio della capitale le lunghe code per il trasporto fanno parte del panorama urbano, al punto che non è possibile immaginare la città senza gruppi di persone intorno a un cartello che indica la fermata del P1 o del P14, del microbus diretto all’Aeroporto o del mezzo pubblico per Varadero. Le difficoltà di spostamento paralizzano il paese. Condannano all’immobilismo una nazione lunga e stretta dove in passato è stata inaugurata una linea ferroviaria prima che in Spagna, la nostra antica metropoli.

 

La paralisi di movimento incide in maniera molto negativa nella vita produttiva e imprenditoriale della nazione, le perdite che reca all’economia nazionale sono incalcolabili. Il fatto che le persone non riescano a muoversi fluidamente lungo il territorio nazionale ostacola lo sviluppo professionale, i rapporti familiari e persino le relazioni di coppia. Cento chilometri diventano una barriera insormontabile da superare, quando l’unico possibilità per arrivare a destinazione è un mezzo di trasporto senza orari fissi e privo di efficienza tecnica. In questo modo si separano padri e figli che vivono in diverse provincie, si ritarda l’inizio della giornata lavorativa in fabbrica e un ufficio pubblico non può aprire all’ora stabilita perché il personale non è arrivato. Il collasso del trasporto caratterizza la nostra vita quotidiana, le imprime un ritmo spezzato e lento, in certi momenti persino esasperante. Sono un ricordo del passato i tempi in cui veniva progettata una metropolitana cittadina che avrebbe risolto molti problemi. La sua costruzione avrebbe dovuto essere sovvenzionata dall’Unione Sovietica, ma è finita nel libro dei sogni incompiuti dopo la caduta del socialismo in Europa. La sede principale del nuovo mezzo di trasporto metropolitano avrebbe dovuto essere edificata in un viale del centro che porta al Consiglio di Stato, ma sono riusciti a gettare solo le fondamenta. Quando sono arrivati gli anni difficili del Periodo speciale nel posto che avrebbe dovuto accogliere la direzione della vistosa metropolitana, è stato aperto un mercato di frutta e verdura. Abbiamo dato addio alle illusioni di modernità, mentre le nostre strade hanno visto apparire enormi camion dalla struttura gibbosa che l’umorismo popolare ha battezzato “cammelli”. Invece di andare avanti, siamo tornati agli albori della mobilità urbana, siamo retrocessi ai veicoli pesanti trasformati in autobus improvvisati. Abbiamo vissuto una simile situazione fino a una timida ripresa del paese dal collasso economico e a un accordo milionario con la Cina che ha portato sull’Isola centinaia di autobus nuovi di zecca. L’arrivo di questi mezzi è stato salutato da una vera e propria apoteosi, persino Raúl Castro ha dedicato diversi passaggi dei suoi discorsi per annunciare che i vecchi cammelli avrebbero smesso di circolare per le strade della capitale, perché il loro peso eccesivo aveva deteriorato le strade, reso pericolanti i balconi e provocato numerosi incidenti.

 

L’Avana sembrava entrare finalmente nel secolo XXI, spostarsi da un luogo all’altro non avrebbe più fatto sprecare ore dei nostri giorni e saremmo potuti tornare a far visita ad amici che non vedevamo da anni. La spinta iniziale è stata forte, le strade mostravano i nuovi veicoli marca Yutong e noi eravamo pervasi da una grande frenesia di movimento. Ma il trasporto pubblico non è riuscito a superare la sua contraddizione più importante: non può essere dato concessione e per esistere deve essere finanziato totalmente dal governo. Prendere un autobus costa il simbolico prezzo di 20 centesimi in moneta nazionale e con tale cifra non è possibile sostenere neppure la riparazione di un parabrezza. Per questo motivo gli autobus hanno cominciato a deteriorarsi, per colpa di atti vandalici, furti, mancanza di senso di appartenenza sui beni sociali in un paese dove “quel che è di tutti non è di nessuno”. In meno di due anni gli autobus nuovi di zecca sono diventati carcasse ruotanti, aggiustati con pezzi di fil di ferro e toppe di fortuna. Le fermate sono tornate a essere ancora una volta affollate da persone che possono rivolgersi soltanto al trasporto pubblico. I tassì privati hanno cominciato a lavorare febbrilmente portando a destinazione migliaia di passeggeri disperati, i vecchi Chevrolet e le rumorose Cadillac del secolo scorso sono stati molto efficienti e flessibili quando si è trattato di coprire certi itinerari. Resta il problema che per salire su una di queste reliquie che puzzano di gasolio bisogna pagare il salario di un’intera giornata lavorativa.

 

Il trionfalismo che ha caratterizzato l’arrivo degli autobus cinesi ha ceduto spazio nei mezzi di comunicazione di massa, mano a mano che tra i cittadini ha preso campo un senso di frustrazione per la crisi profonda del trasporto pubblico. Adesso l’opinione più diffusa su questo tema è che i nostri problemi di mobilità non si risolveranno con l’arrivo di alcune navi cariche di veicoli. Queste difficoltà hanno una radice più profonda, dipendono da un modello economico che non è facile migliorare e passano per l’eliminazione di quel centralismo che ci ha condannati a un trasporto pubblico di tipo medievale. L’immagine di una carrozza a cavalli è ricorrente. Fa parte del passato l’illusione di possedere una metropolitana sotterranea, sembrano remoti i giorni in cui siamo arrivati prima della Spagna a possedere una linea ferroviaria.

 

Yoani Sánchez

(da El Comercio, Perù, 30 gennaio 2011)

Traduzione di Gordiano Lupi


 
 
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