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In memoria e onore dei milanesi uccisi nel maggio 1898
08 Maggio 2010
 

Erano donne e uomini milanesi. Casalinghe, madri, operai, artigiani. Gente comune, esattamente come noi. E furono uccisi perché erano scesi in strada per chiedere una maggiore equità sociale, per protestare contro l’aumento del prezzo del pane, proprio come in quella lontana epoca spagnola cantata da Manzoni.

Nove colpi di cannone, 11.164 proiettili di fucile, fendenti di baionette: i soldati al comando di Bava Beccaris non risparmiarono nulla al popolo meneghino. Provocando, secondo i registri ufficiali del Comune, 81 morti, tra cui un bimbo di 3 anni, tredici ragazzi tra i 9 e i 15 anni. Ma gli uccisi furono sicuramente molti di più: l’Ospedale della Ca’ Granda, secondo le testimonianze, rigurgitava di cadaveri.

Fu una vera carneficina quella che, esattamente cinquant’anni dopo le gloriose Cinque Giornate, si consumò nelle strade di una città che da qualche decennio era diventata la capitale economica d’Italia: la più ricca, la più invidiata. La Milano dell’appena celebrata Esposizione Nazionale dell’Industria (del 1881, con 7000 espositori ai Giardini pubblici) e della futura Esposizione Universale del Sempione (1906). Prima nel Paese per le attività tessili (i telai erano passati dai 1.500 del 1876 ai 70.000 del ’97), siderurgiche e meccaniche (con l’Elvetica poi Breda, la Pirelli, la Falk, l’Ercole Marelli che muovevano i primi passi), chimiche (la Carlo Erba). Luogo principe delle banche e della finanza, ma anche centro culturale con la sua vasta editoria (i tanti quotidiani tra cui il Corriere, nato nel 1876, e poi le case editrici Vallardi, Sonzogno, Treves) e i suoi teatri, città dei divertimenti con i suoi i suoi caffè (dove trionfava il milanesissimo Camparino) e del consumo con i suoi scintillanti negozi (Auxvilles d’Italie dei fratelli Bocconi, diventato poi “La rinascente”).

La Milano degli sciuri, che si facevano seppellire al Monumentale. E che la domenica, dopo la messa, compravano le paste e se le mangiavano nei bei palazzi del centro, dove invece era sempre meno presente quella classe popolare che da sempre l’aveva abitato. Modernizzazione, la chiamavano. E in suo onore avveniva la distruzione dei vecchi palazzi per fare posto alla città-palcoscenico della ricchezza ottocentesca. Fu così che scomparvero la vera Piazza Duomo con il coperto dei Figini e il Rebecchino, le contrade fra il Cordusio e il Castello, le più decentrate mura spagnole, il Lazzaretto ceduto per poche lire al Credito Italiano per costruire case. El Milanon sostituiva definitivamente il Milanin che moriva, come ci hanno raccontato il Bertolazzi, il De Marchi o il Valera, senza alcun rispetto della Storia, come sempre immolata sull’altare dell’architettura. E della speculazione. Una caratteristica che Milano non sarebbe più riuscita a scrollarsi di dosso: ogni riferimento all’attualità è fortemente voluto.

Tuttavia, mentre qualcuno si arricchiva, molti altri facevano la fame. Attirata dal “sogno milanese” di una vita migliore, la popolazione, che nel 1861 contava 250.000 persone, adesso era raddoppiata. Ma il tanto proclamato progresso, faticava a beneficiarla. Perché viveva in case malsane, dove le malattie falciavano le famiglie. Perché lavorava, e tanto, con un salario giornaliero di due lire che serviva per tre quarti al fabbisogno alimentare, il resto per l’affitto. E per una retribuzione da miseria sgobbavano i bambini di 6 anni, 150.000 operai con turni di 12 ore senza regolamenti né mutua, ma in compenso con un altissimo tasso di incidenti tanto che in una lettera il console francese si stupiva delle terribili condizioni di lavoro.

Questa, era la Milano del primo boom. Una città in cui, il 4 marzo 1898, alla festa dello Statuto, all’Arena erano accorsi in 12.000 per applaudire Filippo Turati. E nella quale, in occasione dell’anniversario delle Cinque Giornate, le associazioni dei lavoratori sfilarono a parte, lontane dalle commemorazioni ufficiali, durante le quali la Marcia Reale fu sonoramente fischiata.

Il Primo Maggio, invece, che da otto anni celebrava i lavoratori, passò tranquillo. Ma bastò l’uccisione di Muzio Mussi, figlio del deputato radicale Giuseppe, avvenuta il 5 a Pavia, per dare fuoco alle polveri. Il giorno dopo un diciassettenne si mise a distribuire volantini “sovversivi” alla Pirelli di via Galilei. Il testo, in realtà, era molto cauto e si limitava a chiedere maggiore giustizia sociale, ma tanto bastò per fare arrestare il ragazzo. Al che, gli operai improvvisarono una sassaiola e uno di loro fu preso e condotto nella caserma di via Napo Torriani, in seguito assediata dai lavoratori che rivolevano i due in libertà. Durante gli scontri un altro operaio, Silvestro Salvoldi, fu colpito a morte (e portato in tram al Fatebenefratelli), ma il successivo intervento dell’esercito, oltre ad un furioso temporale, parve placare tutto e tutti, pure i molti milanesi che nel frattempo si erano riuniti in Galleria.

La tragedia, però, era solo all’inizio: la mattina seguente, quella del 7 maggio, la Pirelli proclamò lo sciopero e i lavoratori si avviarono verso le altre fabbriche per ottenere adesioni. Alle 10 i manifestanti erano oramai 4.000, mentre in corso Venezia, all’angolo con via Palestro, sorse la prima barricata formata da sette tram, un carro a botte e alcuni mobili. Fu lì, probabilmente, che iniziò davvero tutto. Perché alle 16:30 le autorità proclamarono, per una semplice manifestazione di protesta, lo stato d’assedio delegando pieni poteri al generale Fiorenzo Bava Beccaris, male informato e stupidamente convinto di essere in presenza di una rivoluzione.

L’escalation di violenza era iniziata. Immediatamente arrivarono altre truppe (20.000 soldati si accamparono in città), vennero chiusi Il Secolo (il giornale allora più letto in Italia) e altre testate, arrestati giornalisti, sciolti circoli socialisti e repubblicani. E il giorno dopo, domenica 8 maggio, contro delle semplici barricate improvvisate, con dietro milanesi inermi, tuonò il cannone a Porta Ticinese, al Garibaldi, in corso Como, a Porta Genova. I colpi e le cariche della cavalleria fecero calmare del tutto le acque, ma la paranoia di chi era al potere non era finita. Dietro la falsa notizia di anarchici in arrivo dalla Svizzera, la follia militare non si placò giungendo pure a colpire con il cannone ed occupare il convento dei Cappuccini in Corso Monforte, dove i poveri venuti come sempre a chiedere un piatto di minestra (esattamente come oggi) vennero visti come una pericolosa folla di rivoltosi.

Solo il 10 maggio Milano riprese a lavorare come nulla fosse. Come forse avrebbe già fatto, se non fosse stata provocata da una arroganza che, purtroppo, non era finita: alla violenza dell’esercito, infatti, seguirono arresti indiscriminati, la chiusura di molti giornali, lo scioglimento della Camera del lavoro e processi di stampo dittatoriale (dei 2.000 trattenuti dalle forze dell’ordine -ma quale?- 823 vennero giudicati e 688 condannati).

Questo, accadeva nel maggio di tanti anni fa. Per l’idiozia di chi volle dare un esempio a tutta l’Italia usando un inutile pugno di ferro. A dimostrazione di questo, ricordiamo il numero di morti tra le forze dell’ordine: solo 3, di cui uno per la caduta di un comignolo e forse ucciso da un suo stesso superiore per disobbedienza, un altro dopo essere andato a trovare la fidanzata ma senza alcun nesso con i fatti del giorno.

81 uccisi a 3: il generale Bava Beccaris si era guadagnato la croce di Grande Ufficiale e la carica di senatore da parte di Umberto I. Il quale, per mano di Gaetano Bresci, da lì a qualche anno avrebbe pagato con la vita la sua scarsa lungimiranza. A volte capita, che la Storia punisca qualcuno, che vendichi gli inermi. Anche perché, in fondo, la Storia siamo anche noi. Salùdi.

 

Mauro Raimondi


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