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Gianfranco Cercone. “Maraviglioso Boccaccio” di Paolo e Vittorio Taviani 
L’eterna verità dell’Umanesimo
11 Marzo 2015
 

È facile dire, con il senno di poi, che ciò che è accaduto era inevitabile che accadesse. Eppure, vedendo il film che i fratelli Taviani hanno tratto dal Decameron di Boccaccio (in particolare da cinque delle novelle che lo compongono) viene da osservare che l’incontro dei due autori cinematografici con questo classico della letteratura, era, se non inevitabile, dei più appropriati.

Il tratto in comune che giustifica l’incontro è, per dirla in breve, anzi con una parola soltanto: l’umanesimo!

Si sa, lo si studia anche a scuola, che Boccaccio, quasi al termine del Medio Evo, prefigura appunto l’Umanesimo, e cioè quell’epoca della storia della cultura nella quale, come si dice, l’uomo era “misura di tutte le cose”. Ebbene, non sembri troppo forzato osservare che nel cinema dei Taviani non soltanto gli uomini sono al centro della narrazione, ma che la figura umana – a volte descritta, esaltata con uno sguardo pittorico – è al centro dell’immagine.

Si potrà obiettare che questa caratteristica non è esclusiva del cinema dei Taviani; che in fondo tutti i film raccontano dei problemi dell’uomo e della convivenza tra gli uomini.

Ma questa seconda affermazione non è del tutto vera. Il meraviglioso e l’orrido sono così preponderanti ad esempio nel cinema della Hollywood odierna, da far spesso sbiadire le umili vicende umane. E poi – circostanza esterna al cinema, ma che anche sul cinema si riflette – nel nostro mondo così complicato, sembrano dominare forze e leggi occulte – almeno agli occhi della gente comune; come sottratte al controllo degli uomini.

In una delle novelle trasposte dai Taviani si racconta di una beffa crudele ai danni di uno sciocco, un certo Calandrino. Gli viene fatto credere da due amici di essere diventato invisibile grazie alle proprietà magiche di una pietra nera, che egli ha trovato sul greto di un fiume. Ebbene nel comune di Firenze in cui la vicenda è collocata, pare verosimile ai Taviani (perché si tratta di una loro originale invenzione) che tutti i concittadini, almeno quelli che Calandrino incontra, si siano messi d’accordo per reggere il gioco ai due amici: ciò che implica che nella Firenze di quel tempo, come in un paese, tutti si conoscano e collaborino tra loro; e che la vita di un uomo si muova nel raggio di poche strade.

È vero che in questo mondo comunale ai suoi albori, così circoscritto, e per questo facilmente padroneggiato dalla conoscenza e dalla volontà degli uomini, capita un cataclisma che sovrasta e umilia le forze umane: la peste!

Sulle immagini della peste a Firenze, che, per via del terrore del contagio, rompe i legami di parentela, fa nemici i congiunti, si apre il film dei Taviani, così come si apriva l’opera di Boccaccio.

Ma ecco: proprio nella prima delle novelle raccontate nel film – dove si tratta di una ragazza che, appestata, è abbandonata dal marito ed è raccolta e curata dal suo innamorato, che riesce a farla guarire, diventandone di fatto il nuovo, vero marito – si dimostra che anche la peste non sottrae gli uomini alla loro responsabilità morale: mette anzi alla prova i caratteri, denuda la vigliaccheria così come l’amore eroico. E sono tali virtù e tali vizi al centro del racconto.

Non sorprende che in un film dichiaratamente “umanistico”, i momenti più riusciti siano i ritratti di alcuni dei personaggi (insieme ad alcune immagini bellissime del paesaggio toscano).

Ho già citato il caso di Calandrino. Ebbene, questo scemo, di regola un succube e un adulatore, che si sfoga delle proprie frustrazioni picchiando la moglie e che, approfittando della propria invisibilità presunta, si prende la soddisfazione di alcune povere prepotenze ai danni di alcuni mercanti che altrimenti lo metterebbero in soggezione, è il gran ritratto umoristico di un miserabile: ridicolo, ma anche in fondo struggente (lo interpreta molto bene Kim Rossi Stuart).

Così come – e questa è una figura nobile, moralmente prima che per classe di appartenenza – è difficile dimenticare il volto severo, stralunato da una fissazione amorosa, di Federico degli Alberighi (lo impersona Josafat Vagni), capace di ridursi povero come un eremita nel tentativo di conquistare la donna che ama; e per la quale, come qualcuno ricorderà, sacrifica alla fine in un atto di sublime generosità, la sua ultima ricchezza: un falcone da caccia.

Il film dei Taviani può sembrarci antiquato come il pregiato manufatto di un artigiano. E invece, io credo, il loro umanesimo – per il quale la realtà è determinata in primo luogo dalle qualità e dai difetti degli uomini – contiene un’eterna verità, serve a leggere anche il mondo di oggi.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 9 marzo 2015)


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