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Gianfranco Cercone. “La dea fortuna” di Ferzan Ozpetek
03 Gennaio 2020
 

La prevedibilità costituisce davvero, di per sé, un difetto, in un racconto letterario o cinematografico?

Io non ne sono convinto, anche perché non penso che sia la sorpresa l'emozione più incisiva che può riservarci un racconto. Mentre possiamo prevedere che due innamorati si ricongiungeranno, che l'assassino sarà smascherato, che l'eroe sarà ucciso, il processo per cui si produrranno questi eventi potrà comunque emozionarci e magari commuoverci.

Ora, mi pare indubbio che l'esito della storia che racconta Ferzan Ozpetek nel suo ultimo film intitolato: La dea fortuna sia largamente prevedibile. I protagonisti del racconto sono due uomini legati da un lungo sodalizio amoroso ora in crisi, perché si è offuscata la passione di un tempo, perché in genere nelle loro vite sugli entusiasmi e le speranze della gioventù, sono prevalse le delusioni e il grigiore delle abitudini quotidiane.

Così quando una loro cara amica, rimasta sola con due figli piccoli, si ammala gravemente, e affida loro per qualche tempo i due bambini, capiamo subito che quei bambini sono destinati a portare nuova linfa al corpo stanco della loro relazione, e che tutti insieme formeranno una nuova famiglia. E sarà questa infatti – superati alcuni ostacoli che si indovinano quasi subito sormontabili (i due uomini che vorrebbero separarsi, una nonna che vorrebbe impadronirsi dei bambini) – sarà appunto questo l'esito della vicenda.

Ora, se è vero che la prevedibilità in arte non è davvero un difetto, si potrebbe però rimproverare ad Ozpetek di avere agevolato un po' artificiosamente la conclusione. Insomma: il racconto non dà sempre l'impressione di procedere “motu proprio”, con spontaneità, ma di essere guidato da un intento dimostrativo: dimostrare cioè che tanto per i due bambini quanto per i due uomini, quel legame familiare è la migliore soluzione possibile.

È nella logica, credo, di una dimostrazione, che alla nuova famiglia felice è contrapposta l'ipotesi di un'altra famiglia nella quale i due bambini sarebbero affidati alla nonna, che è però una nonna-strega, una nonna-orco (efficacemente impersonata dalla scrittrice Barbara Alberti), la quale introduce un elemento quasi fiabesco in un racconto che prima di allora era stato soltanto del tutto realistico. È evidente che i bambini starebbero meglio con i due uomini, ma, data l'orrida alternativa, Ozpetek si è dato un po' troppo facilmente ragione.

Ma la forza del film è nella descrizione, fine e sottile, del legame tra i due uomini, interpretati da Edoardo Leo e Stefano Accorsi.

Lo spirito libertario di quel legame – per cui l'omosessualità non costituisce mai, ovviamente, motivo di inibizione o di vergogna; per cui sono ammessi saltuari tradimenti, e anche il sesso di gruppo – non diventa mai ragione di una celebrazione trionfalistica di quel legame. La crisi della coppia – dovuta anche all'invecchiamento, a una conoscenza dell'altro così intima che non risparmia le sue meschinità, e impedisce qualsiasi idealizzazione – quella crisi è resa con un'oggettività perfino crudele.

Ma l'intuizione più vera che è al fondo del racconto, è che la vita, anche di coppia, per non inaridirsi, avrebbe bisogno di una prospettiva più ampia del ristretto orizzonte del privato. Ma data la mancanza di ideali di qualsiasi genere, che questo film come altri film italiani riflette, sono qui soltanto i bambini che riescono ad apportare alla coppia la vivificante prospettiva di una vita futura.

Molto interessante.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 28 dicembre 2019
»»
QUI la scheda audio)


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