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Giuseppe Guzzo: Don Lorenzo Milani precursore della Scuola di oggi
Don Milani con un giovane studente
Don Milani con un giovane studente 
06 Marzo 2008
 

Periodicamente si torna a parlare di don Lorenzo Milani, sacerdote ed educatore che, pur prematuramente scomparso ad appena quarantaquattro anni, con la sua azione ha scosso fin dalle fondamenta la Chiesa e la scuola del suo tempo.

Se ne parla, purtroppo, quasi sempre per sentito dire, orecchiando giudizi ed opinioni espressi da altri che mai hanno esplorato questa che è sicuramente una delle figure più emblematiche del secolo addietro, e, perciò, precludendosi la possibilità di penetrare intimamente il suo essere apostolo e portatore di un messaggio dall’altare e dalla cattedra.

Di lui si sono occupati uomini di scuola e di chiesa, ma pure filosofi, giornalisti, architetti, economisti, giuristi e tanti attratti dal messaggio in difesa delle classi sociali minori, subalterne, emarginate, economicamente e culturalmente svantaggiate.

Su di lui si è scritto di tutto e… il contrario di tutto. Si sono espressi giudizi altamente positivi, ma pure negativi. È stato sempre facile, a chiunque abbia voluto elevarlo agli altari, non meno, però che buttarlo nella polvere confermando con ciò il destino delle figure carismatiche come sono i rivoluzionari, i profeti ed i santi.

Don Milani, per la particolarità della sua azione si è prestato in vita, ma si presta anche dopo la morte, ad essere affrontato da una pluralità di angolazioni, ad essere mediato attraverso una molteplicità di ottiche.

Una delle prospettive ancora non sufficientemente approfondite, tuttavia, è quella di aver Lui anticipato la scuola d’oggi, di essere stato un precursore di tanti di quei motivi che oggi vengono assunti come parametri della riqualificazione di un sistema di istruzione e di formazione che voglia effettivamente rispondere alle domande degli studenti dell’odierna società complessa e globalizzata.

Soffermarsi, allora, sul don Milani antesignano della scuola venuta fuori oggi a distanza di quasi un cinquantennio, anticipatore delle idee fondanti l’educazione nell’età tra due secoli, precorritore di tanti degli attuali fermenti innovativi, può sicuramente contribuire a rendere giustizia al don Milani educatore, ma pure attrezzare di più sicure e solide fondamenta la scuola che sta venendo fuori attraverso il tanto discusso processo di riforma.

 

Una scuola vicina agli alunni

Oggi parliamo, con sempre maggiore insistenza, di una scuola che non deve essere lontana dalla vita dei suoi alunni, ‘altro’ dei loro interessi, del loro mondo, ma radicata nel territorio, nella cultura di quel territorio e di essa alimentarsi costantemente.

Facciamo insistentemente riferimento ad una scuola che non deve perdere tempo nel distribuire saperi alti, accademizzati e aulici, ma spendersi in saperi pratici, operativi, che deve avviare a quella cultura che serve realmente alla vita degli studenti che si vanno facendo adulti e cittadini di una società democratica e civile.

Pensiamo a questi concetti come ad idee nuove, quasi scoperte della pedagogia di oggi, gabellate persino per scelte politiche di avanguardia ed ignoriamo che già allora, a Calenzano e a Barbiana, si preparava alla vita con la cultura che fosse essa stessa vita. Si preparava alla vita perché la scuola era espressione della vita degli alunni. Era portatrice della loro cultura e delle loro esigenze.

Nel regolamento dell’autonomia implementata nella scuola italiana dal settembre del 2000 c’è un continuo richiamo al rapporto che la scuola deve avere con la comunità in cui opera, con le famiglie soprattutto, con gli enti locali chiamati a divenire risorse educative di primo piano, soggetti autenticamente educativi e non più solo enti fornitori di strutture e servizi.

Ci sono continui richiami alle interazioni che le scuole debbono avere tra di loro, alle reti tra scuole, e con gli enti locali, al raccordo e alla sintesi tra le esigenze individuali di ciascun alunno e quelli che sono gli obiettivi del sistema nazionale di istruzione e formazione.

Nel dibattito di questi ultimi anni sulla riforma è stata richiamata l’esigenza che venga valorizzato il pluralismo culturale, economico e sociale del contesto locale come nuova esigenza.

Si ignora, che tante di quelle scuole ‘alternative’ degli anni in cui fruttificò anche l’esperienza milaniana avevano già nel loro Dna il rapporto con il territorio, la valorizzazione della cultura locale quale fonte di saperi degni di entrare tra le pareti scolastiche.

Quella di don Milani era scuola che si faceva famiglia, che dei genitori continuava l’azione educativa. Tante volte l’integrava. Era scuola in cui il contesto era coinvolto in prima persona. Tutto ciò non formalmente, ma naturalmente giacché era scuola di vita. Era essa stessa vita.

 

La multimedialità e la stampa

Tra i tanti tratti caratterizzanti l’attualità della scuola di don Milani, non si può sottacere del ruolo che egli attribuì agli strumenti della multimedialità.

L’odierna simpatia verso quanto sa di tecnologico e viene assunto come scoperta e risorsa della didattica, la febbre verso gli strumenti scientifici, insomma, non è dei nostri giorni, ma affonda le radici fin negli anni dell’impegno di don Milani a San Donato di Calenzano e a Barbiana. Non risparmiò, è fin troppo noto, neppure la scuola di don Milani dove si faceva grande uso delle tecnologie, di quelle del suo tempo e nel senso più produttivo possibile.

A Barbiana non mancarono la macchina da scrivere, quella fotografica, il ciclostile, il registratore, la radio, il proiettore e quant’altro servisse a favorire l’apprendimento e potesse essere piegato in funzione didattica.

Il giornale, in particolare, fu tra i media quello che più di ogni altro aveva diritto di piena cittadinanza nella scuola di don Milani. La stampa, quotidiana o periodica, venne assunta come sistematico sussidio, come risorsa ineludibile ed indispensabile per l’apertura al mondo, quasi finestra sulla realtà esterna, vicina o lontana che fosse, su cui poi si accendeva la discussione, da cui prendevano le mosse i vari momenti didattici che finivano con l’essere sempre momenti educativi, formativi.

Il giornale, insomma, non utilizzato come…dopolavoro scolastico, ma come risorsa autentica per crescere, tanto che il suo impiego è stato sicuramente uno dei capitoli più significativi, il più significativo, se vogliamo, della pedagogia milaniana. Diveniva, infatti, libro di testo, di lettura, sussidiario. Lì mancavano i ‘segni’ della scuola, la cattedra, i registri, i voti e gli stessi testi ufficiali

Con il giornale si affrontavano problemi di storia, di geografia, di economia, di politica, di etica, di moralità ecc. giacché questi erano i contenuti della sua scuola, visto che né a Calenzano né a Barbiana si andava per apprendere discipline, né per assimilare nozioni da ripetere in sede di esami, per alfabetizzarsi dal punto di vista strumentale, insomma, ma per divenire adulti. Veri cittadini di una società civile, operai o professionisti, sindacalisti o politici che fossero destinati a divenire i suoi alunni e che preferivano frequentare la scuola di don Milani dall’alba al tramonto, per trecentosessantacinque giorni l’anno, rischiando pure di prendere sonore pedate nel sedere anziché lavorare per i campi e con le mucche con i loro genitori.

Tutto entrava nella scuola di don Milani attraverso la stampa. Persino tanto di cui ancora oggi saremmo scandalizzati perché la scuola di don Milani fu scuola di preparazione alla vita. Entrarono, per fare qualche esempio, i grandi temi dell’obiezione di coscienza, della pace, della guerra.

 

Tutor’ e maestro di pacifismo e di libertà in una ‘non’ scuola

Don Milani fu un prete educatore, ma soprattutto un ‘tutor’ nel senso più completo del termine, non certamente in quello che oggi viene attribuito dagli attuali riformatori. Si assunse, infatti, il compito di maestro che guida e assiste la crescita dei suoi alunni, che ne orienta lo sviluppo di tutte le dimensioni facilitando le scelte scolastiche prima e quelle professionali poi, e che anche quando indugia sull’acquisizione degli apprendimenti formali, questi vede strumentali alla formazione dei cittadini impegnati in prima persona nella costruzione della società civile in cui tutti i cittadini, gli ultimi compresi, occupano il posto e svolgono il ruolo che loro compete in quanto persone, integralmente formate.

Supplì, infatti, a quello che altri avrebbero dovuto fare, ma che non facevano. Fu impegnato, in questa relazione di aiuto fino in fondo: arrivò a minacciare addirittura di scioperare ‘sacerdotalmente’ rifiutandosi addirittura di dire messa se taluni notabili del paese non avessero sistemato una cloaca che appestava persino la sacrestia. Poté rifiutarsi di suggerire ai parrocchiani di votare per la Dc e, viceversa, invitarli a votare per chiunque, purché cattolico ed onesto.

Questa sua azione di ‘tutoraggio’, di difensore, di protettore della crescita di suoi alunni fu appunto una delle variabili più importanti del suo messaggio educativo.

Certo la sua scuola rischiò di non essere considerata una scuola. Di sicuro non fu una scuola, nel senso formale che noi presupponiamo. Lui stesso ne era convinto tanto che in una lettera per descriverla ad alcuni studenti che gli chiedono il permesso di visitarla, parlava di un tavolo sotto una pergola e di tanti alunni intorno ad un prete ‘stravaccato’ in poltrona.

Ma forse, anzi certamente, fu più di una scuola. Una vera e propria scuola, la scuola per eccellenza visto che il suo impegno primario era quello di fare dei suoi alunni non ripetitori di nozioni metabolizzate a memoria, ma veri e propri cittadini, portatori di diritti e di doveri grazie ai valori che vi circolavano non con le metodologie cattedratiche, con l’autorità di chi insegnava, con il servilismo di chi apprendeva, ma solo attraverso la pratica, attraverso un ambiente comunitario, veramente comunitario. Anche in quest’ottica don Milani è attuale.

Don Milani fu un educatore non violento come tanti dei suoli tempi, più che quelli di oggi, che si sono mossi ‘fuori’ o ‘contro’ la scuola ufficiale e come pochi che si sono ispirati, per fare qualche esempio, a Socrate, a Tolstoi, a Gandhi, a Freire e, in Italia, a Maria Montessori, ad Aldo Capitini, a Danilo Dolci, tutti elaboratori di teorie sull’educazione alla non violenza sperimentate nella prassi di scuole non violente, tanto differenti, in contrasto con quelle delle ufficiali in cui i valori della pace vengono insegnanti dettando princìpi, attraverso la trasmissione dall’alto di saperi, in cui il lavoro intellettuale è separato da quello manuale, altrettanto nobile e in cui domina solo la cultura della classe dominante.

Al pari della scuola di Jasnaia Poliana di Tolstoi, di quella popolare di Dolci in Sicilia, di quella degli adulti in Brasile di Freire, nella scuola di Barbiana, non si insegnava la pace, ma la si viveva quotidianamente, la si apprendeva mediante il clima di non violenza che vi si respirava, mediando, insomma, azioni e comportamenti pacifisti.

Don Milani conduceva i suoi alunni a scoprire, essi stessi, la cultura della pace, quella pace di cui aveva tanto bisogno il clima sociale del suo tempo, non meno che di quello di tutti i tempi. Nostri compresi.

Per questo, strumenti fondamentali della sua scuola divenivano il mutuo insegnamento in un clima di comunità di apprendimento, ma pure il rifiuto più assoluto di qualsiasi atteggiamento di competizione, di concorrenza, di rivalità per fare posto continuamente all’incontro, alla collaborazione e alla cooperazione.

Allo stesso modo a Barbiana una particolare attenzione fu posta sempre all’essere anziché all’avere il che, al postutto, significava eliminare, o anche solo ridurre, una delle cause dei conflitti e delle lotte tra gli uomini quali, ad esempio, il possesso di beni.

Per questo don Milani ancora oggi è giustamente considerato un momento essenziale della scuola italiana tanto che, recentemente anche se restrittivamente, è stato citato dal primo documento riformatore elaborato dalla Commissione Bertagna.

Ha insegnato, in definitiva, che non si nasce soggetti, né si è soggetti per il solo fatto di esistere, ma si diventa soggetti lentamente, attraverso qual riconoscimento che la scuola dovrebbe dare a tutti, quella scuola alla quale Lui aveva voluto fare indossare nuovi panni senza esservi riuscito visto che il suo messaggio è stato tante volte frainteso.

Don Milani ‘profeta di pacifismo’ e ‘maestro di libertà’ in una scuola che preparava all’esercizio dei doveri/diritti di cittadinanza, è una chiave di lettura che deve essere ripresa oggi in cui dobbiamo registrare centinaia di focolai di guerra in tutto il mondo.

Anche se rivisitare il suo pensiero attraverso la pedagogia della pace è una tentazione pericolosa, non bisogna mai dimenticare che la Lettera a una professoressa ha tracciato e traccia un percorso verso la conquista della libertà della persona umana, libertà articolata  nella libertà dall’ignoranza, dai soprusi dei forti, dalle oppressioni della cultura dominanti, ma pure da chi possiede la parola e domina chi non la possiede.

L’attualità della scuola di don Milani è, come si vede, ancora molto forte non fosse per altro che Barbiana non si faceva scuola per uomini ideali, ma perché divenissero cittadini destinati a saper scegliere il bene ed il male, a camminare tra le tentazioni senza restarne impigliati, a contribuire alla costruzione di una società democratica e civile.

 

Giuseppe Guzzo

 

 

 

Giuseppe Guzzo ha pubblicato: Don Milani, un itinerario pedagogico, Rubettino - CS. È Dirigente tecnico del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. Docente di Didattica Speciale presso l’Università della Calabria. (pc)


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