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Marisa Cecchetti. “Storie della valle del Serchio” di Piero Panattoni
19 Luglio 2018
 

Piero Panattoni,

Storie della valle del Serchio

Edizioni Helicon, 2018, pp. 170, € 12,50

 

Anche gli umili fanno la Storia, sono espressione di aspetti socio culturali, di linee politiche e di pensiero. Lo sa bene Piero Panattoni, pisano, già insegnante di Liceo e, come lui si definisce, attore di teatro e trovarobe, che ha fatto un quadro di gente di paese, raccontata da uno di loro, Accio, ovvero Giulio Crocicchi, l’uomo “che un giorno di novembre traversò il fiume in piena attaccato ad una chiattina di assi incrociate”. Accio raccoglie le voci di una comunità di piccoli paesi del pisano, in prossimità del Serchio, in epoca fascista, paesi che l’autore conosce bene.

Del resto umili e potenti sono accomunati da uno stesso destino finale, a niente vale la diversità delle loro occasioni in vita: “Il vanto di un nome illustre, lo sforzo del potere / e tutta la bellezza, tutta la ricchezza che mai sia stata data, / attende allo stesso modo l'ora inevitabile. / I sentieri della gloria non portano che alla tomba». (Thomas Gray, Elegia scritta in un cimitero campestre).

C’è bisogno di dare un senso al nostro percorso, di non annullare la memoria, perché, finché siamo nel ricordo di altri, di persone che ci hanno conosciuto, che ci hanno voluto bene, si continua ad esistere: “ha un senso questo affannarsi senza requie e, quando saremo morti, qualcuno si ricorderà di noi?” si chiede Accio, con un chiaro rimando foscoliano.

Il fiume è una presenza trasversale ai racconti di Panattoni, che sono comunque legati tra loro come se l’acqua del Serchio, scorrendo verso il mare poco distante, li tenesse uniti. I personaggi si richiamano l’un l’altro, vuoi per legami di parentela, vuoi per altre occasioni di incontro, e creano così una rete che li contiene.

Sono personaggi sospesi tra la realtà e il sogno, in una atmosfera decisamente felliniana: incontriamo suonatori di strada, lanternisti fascinatori con lo spettacolo di lanterne magiche, venditori ambulanti di bottoni. C’è un licantropo che non ha il coraggio di dichiarare il suo amore, la donna che vive la morte di lui come una vedova, ci sono grasse donne affabulatrici, prostitute generose, profondamente accoglienti, c’è chi fa Resistenza attraverso la musica. La solitudine comunque non risparmia nemmeno all’interno di queste comunità, e vasta è la moltitudine di situazioni, personaggi, storie, psicologie.

C’è una vicinanza umana, una evidente simpatia per queste creature, che si coglie in tutte le pagine del libro, una pietas profonda, senza pregiudizio alcuno o condanna. Si respira la saggezza di persone semplici, la loro capacità di apprezzare la vita anche nelle difficoltà, con l’aiuto di un pizzico di ironia toscana che non guasta e serve a prendere la distanza di protezione dal dolore.

Il legame più forte, come le acque del Serchio che scorre tra i paesi e sembra farne uno solo, è comunque l’amore, che non si nega mai, che non guarda solo alla forma esteriore: “Come si fa a non essere donne vere e romantiche con un uomo simile, che davanti alle foto di me giovane e guerriera, mai una volta mi ha rimproverato, neppure con le parole mute del pensiero, di non essere più quella di un tempo”.

Dietro a queste storie si legge un desiderio di recupero di umanità, di apertura agli altri, di costruzione di legami saldi e duraturi, di azzeramento della emarginazione, e tanto altro di umano, di cui oggi c’è un bisogno profondo.

 

Marisa Cecchetti


 
 
 
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