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La lingua fu dingua in Tellusfolio
30 Gennaio 2008
 

Tellusfolio è una parola composta che sintetizza bene la lingua come fiume sporco di terra, tellus, che entra in folio. Capita che scriviamo proprio in Tellusfolio; quindi corrispondono dimensione e luogo dove esprimiamo la nostra lingua. La memoria è la fonte che complica lo spirito della parola: non si sa più che la latina lingua fu dingua.

«Tra l’Essere e la Parola la relazione è costitutiva. Essere e Parola non sono due; non si possono separare. Non sono nemmeno uno, non si possono confondere». Scrive così l’indocatalano Raimon Panikar in Lo spirito della parola pubblicato nel 2007 da Bollati Boringhieri. Perfettamente d’accordo, in questo!

Chiariamo con un esempio.

Se io vi dico che la parola latina lingua fu in antico dingua voi direte 'Embè?! Qual è la notizia?’; se poi non sono in grado di aggiungere il nome autorevole che sostenne lingua ß dingua: l’Essere dichiarante non è separabile dall’affermazione importante proposta se si vuol tenerne conto.

Esaminiamo quale rinomanza avesse il personaggio che sostenne questa cosa 1650 anni fa.

Narra sant’Agostino:

Feci visita dunque a Simpliciano, padre per la grazia, che aveva ricevuto da lui, del vescovo di allora Ambrogio e amato da Ambrogio proprio come un padre. Quando, nel descrivergli la tortuosità dei miei errori, accennai alla lettura da me fatta di alcune opere dei filosofi platonici, tradotte in latino da Vittorino [rds] già retore a Roma e morto [380? nds. Qui siamo nel 386], a quanto avevo udito, da cristiano, si rallegrò con me per non essermi imbattuto negli scritti di altri filosofi, ove pullulavano menzogne e inganni secondo i principi di questo mondo.[…] Per esortarmi poi all’umiltà di Cristo, celata ai sapienti e rivelata ai piccoli, evocò i suoi ricordi di Vittorino, appunto, da lui conosciuto intimamente, durante il suo soggiorno a Roma. Quanto mi narrò l’amico non tacerò, poiché offre l’occasione di rendere lode alla tua grazia. Quel vecchio possedeva vasta dottrina ed esperienza di tutte le discipline liberali, aveva letto e ponderato un numero straordinario di filosofi, era stato maestro di moltissimi nobili senatori; così meritò e ottenne per lo splendore del suo altissimo insegnamento un onore ritenuto insigne dai cittadini di questo mondo: una statua nel foro romano [rds]. Fino a quell’età aveva venerato gli idoli e partecipato ai sacrifici sacrileghi, da cui la nobiltà romana di allora quasi tutta invasata, delirava per la dea del popolino Pelusio e per mostri divini di ogni genere e per Anubi l’abbaiatore, i quali un giorno, contro Nettuno e Venere e Minerva presero le armi. Roma supplicava ora questi dèi dopo averli vinti, e il vecchio Vittorino li aveva difesi per lunghi anni con eloquenza terrificante [rds]. Eppure non arrossì di farsi garzone del tuo Cristo e infante alla tua fonte, di sottoporre il collo al giogo dell’umiltà, di chinare la fronte al disonore della croce. Le confessioni, VIII, 3.

Costui è Marcus Victorinus, retore neoplatonico tanto stimato da avere una statua nel foro di Roma. Riferiamo ampiamente il racconto di Agostino anche per contestualizzare la religiosità forte e specificamente pagana del suo tempo [che autori moderni superficiali falsano attualizzando].

Dalla fama in foro alla chiesa la conversione di V. fece fatica a manifestarsi proprio per la sua identità pagana riconosciuta:

A detta di Simpliciano, leggeva la Sacra Scrittura, e tutti i testi cristiani ricercava con la massima diligenza e studiava. Diceva a Simpliciano, non in pubblico, ma in gran segreto e confidenzialmente: -Devi sapere che sono ormai cristiano.- L’altro replicava: -Non lo crederò né ti considererò nel numero dei cristiani finchè ti avrò visto nella chiesa di Cristo.- Egli chiedeva sorridendo: -Sono dunque i muri a fare i cristiani?- E lo affermava sovente, di essere ormai cristiano, e Simpliciano replicava sempre allo stesso modo, ed egli ripeteva quel suo motto sui muri della chiesa. In realtà si peritava di spiacere ai suoi amici, superbi adoratori del demonio, temendo che dall’alto della loro babilonica maestà e da quei cedri, direi, del Libano, che il Signore non aveva ancora stritolato, pesanti si sarebbero abbattute su di lui le ostilità. Le confessioni, VIII, 4.

A Roma chi si accosta alla tua grazia [Signore –al quale Agostino si rivolge nelle sue Confessioni] recita da un luogo elevato, al cospetto della massa dei fedeli una formula fissa imparata a memoria. Però i preti, narrava l’amico [Simpliciano], proposero a Vittorino di emettere la sua professione in forma privata, licenza che si usava accordare a chi faceva pensare che si sarebbe emozionato per la vergogna. Ma Vittorino amò meglio di professare la sua salvezza al cospetto della santa moltitudine. Da retore non insegnava la salvezza, eppure aveva professato la retorica pubblicamente; dunque tanto meno doveva vergognarsi del suo gregge mansueto pronunciando la tua parola chi proferiva le sue parole senza vergognarsi delle turbe insane. Così, quando salì a recitare la formula, tutti gli astanti scandirono fragorosamente in segno di approvazione il suo nome, facendo eco gli uni agli altri, secondo che lo conoscevano. Ma chi era là, che non lo conosceva? Risuonò dunque di bocca in bocca nella letizia generale un grido contenuto: -Vittorino, Vittorino-; e come subito gridarono festosi al vederlo, così tosto tacquero sospesi per udirlo. Egli recitò la sua professione della fede con sicurezza straordinaria. Tutti avrebbero voluto portarselo via dentro al proprio cuore, e ognuno invero se lo portò via con le mani rapaci dell’amore e del gaudio. da Le confessioni, VIII, 5.

Dunque Vittorino fu un retore come lo fu Agostino e ben più famoso di lui a Roma allora. Ora è quasi ignoto.

Il suo esempio avrà contribuito alla conversione di A., se A. riferisce questo fatto proprio al centro della sua trasformazione di vita.

Il retore sarebbe oggi un insegnante d’italiano, un depuratore linguistico, capace di scriverti un discorso ufficiale perché la sa lunga sulla lingua.

Fama, malum quo non aliut velocius ullum          Eneide, IV, 174

La fama, fulminea tra tutti i mali

La fama, che si propaga più velocemente tra tutti i mali, è come il vento, possiamo chiosare: a volte si alza forte come nella professione di fede del grande retore Vittorino e a volte zittisce come oggi sul suo nome!

In una sua opera Marius Victorinus [così il suo nome, Marius!, per Ernout e Meillet] sostiene che anticamente lingua era dingua.

D’apres Marius Victorinus, GLK VI 26, 3, la forme ancienne du mot [lingua] était dingua.

Secondo Mario Vittorino la forma antica della parola lingua era dingua.[Langue latine]

Sottolineiamo Marius per Marcus solo per ribadire come la sua notorietà sia effimera.

La sillabazione ding ua fa emergere DIN G UA espressione sumera omogenea sia con DIN G IR, divinità, e sia con EME G IR, lingua.

DINGIR è DI IN G IR, divinità entra Luce viene.

[Robert A. DI VITO –Studies in III millennium sumerian and accadian personal names, 1993 Roma, analizza molto diffusamente questo termine generale usato dai Sumeri per tutte le divinità nelle varie epoche]. IR come ‘va-viene viene tradotto in Studi per il vocabolario numerico, I/3 Glossario di G. Reisner, Tempelurkunden Aus Telloh, ed. Università La Sapienza di Roma.

EME G IR, ME Luce viene. Questo è il notorio che sta per lingua sumera e per lingua in generale: il giro del ME.

Il ME, come detto in premessa, è inseparabile dalla divinità-Luce DIN G.

DIN G UA, divinità luce Cielo Terra.

UA, che troviamo in Mantua, Padua, in UA TE, il Vate, che è colui che tiene il rapporto tra Cielo (U) e Terra (A) mostra che DIN G UA era ritenuto un dono del Cielo alla Terra.

La fama è un fulmen che nel flumen della lingua lascia segni ermetici, ma riconoscibili se ci aiutano i nomi degli Dèi!

 

Carlo Forin


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