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Roberto Fantini. Conversazione con Sara Culzoni, autrice di Beit Dabar
15 Febbraio 2015
 

A distanza di un anno dall’importante riconoscimento ottenuto all’interno del Premio Internazionale “Etica in atto” di Pescara, per la sua opera Il poeta di Gjakova, Sara Culzoni ci regala il suo primo libro, Beit Dabar, confermandosi scrittrice dalla raffinata creatività. È un libro il suo fatto di tante cose e di tante storie aggrovigliate insieme, a volte aspro, a volte lirico ed evocante, a volte vigorosamente apotefgmatico. Un libro che ti avvince e ti sommerge di emozioni, ma che può risultare difficile da decodificare facendo ricorso a metri interpretativi di natura esclusivamente intellettuale. Parlarne direttamente con Sara ci aiuterà forse ad intravedere meglio le giuste piste interpretative.

 

 

– Sara, il tuo Beit Dabar è davvero un libro strano, quasi impossibile da classificare, a metà strada fra il poemetto filosofico e la pièce teatrale... Una sorta di meditazione appassionata sul drammatico enigma del vivere.

Da cosa hai ricavato la prima ispirazione? E quali sono state le fonti letterarie a cui hai maggiormente attinto?

Credo che teatro e narrativa non siano due mondi così distanti. Attingono continuamente l’uno dall’altro, a volte tacitamente, in altri casi in modo evidente, dando vita a nuovi ibridi. Dal teatro ho preso l’immediatezza, l’abbandono della correttezza formale e della frase indiretta, l’attenzione nel creare un personaggio vivo, con una sua corporeità. Dalla narrativa il piacere e la calma del racconto. Non volevo che questo testo apparisse un copione per soli addetti ai lavori, ma che si potesse leggere, ascoltare o vedere, in base all’uso che ne sarebbe stato fatto. Sicuramente la mia formazione teatrale mi ha condizionato: l’interesse per il teatro di narrazione, la lettura di testi di Celestini, gli spettacoli di Paolini… Poi la passione per una scrittura poetica, come quella di Erri De Luca e per i protagonisti del mondo biblico. La musicalità e la ridondanza dell’oralità l’ho attinta sicuramente da questi maestri, oltre che dal mondo che mi circonda.

 

– L'albero di Beit Dabar è in parte vivo e in parte secco. È un albero che ci parla della condizione dell'esistenza umana e che rappresenta certamente molte cose. Quali, ad esempio?

L’albero di Beit Dabar è prima di tutto solamente un albero. Elemento d’ambientazione di un paesaggio arido e polveroso in cui si svolge la vicenda. Quasi un miracolo della natura, come può apparire un’oasi nel deserto, preziosa e rara per contrasto, dato il nulla che vi è attorno. Poi, è giustamente un’allegoria. Ritratto immobile dell’uomo e della sua vita. Il tronco un corpo, i rami le braccia, la linfa il sangue e le foglie una discendenza. Le radici possenti sono i suoi legami, la famiglia, i ricordi indelebili di una vita passata. Nonostante appaia forte e rigoglioso, l’albero di Beit Dabar ha in sé qualcosa di morto, una paralisi, che si manifesta nella sua parte secca. C’è qualcosa nella vita dello stilita di sterile, qualcosa che gli impedisce di gioire, di vivere l’amore e di esplodere nella sua pienezza vitale. Lo stilita è un uomo saggio, forse un santo, ma non per questo perfetto e privo di paure. Così anche tutti i gli altri personaggi. Tutti hanno una loro parte secca, un nodo da sciogliere e un errore da perdonare, ma soprattutto da perdonarsi.

 

– Come si legano, nel tuo lavoro, il tema dell'accoglienza qui, nel mondo duro e faticoso (fatto di deserti e solitudini) in cui siamo tuffati, con quello dell'“Oltre”?

Il tema dell’accoglienza è incarnato visceralmente nel personaggio di Anna. Lei vive nell’attesa e nella preparazione. È una donna docile, profondamente empatica, dotata di una forza straordinaria. Anna ha tutte le caratteristiche di una mamma e sembra un paradosso che proprio lei, assieme al marito, non sia nella condizione di generare. Lei coltiva l’amore, la pazienza, l’ascolto, ma non ha nessuno su cui riversarli, per cui usare i suoi doni. Fino a che non le arriva tra le mani una bambina, “senza passarle dal ventre”.

Anna è diversa dagli altri personaggi, il suo comportamento spesso esce da una logica umana, perché si muove all’interno di un tempo diverso. Non fatto di giorni o di ore, ma di fasi di cambiamento interiore, di accettazione e di consapevolezza. L’accoglienza non è più allora solamente offrire un letto o un pasto caldo, ma sapere attendere le evoluzioni dell’altro, i suoi tempi, rispettare le sue paure e curare pian piano le sue ferite, a volte dovendo rimanere a distanza. Il pensiero per l’altro, per il suo bene, il desiderio e la preghiera, diventano qui armi potenti, che congiungono il tema estremamente concreto dell’ospitalità con quello trascendente dell’Oltre. Perché Anna ha fede e accetta di riporre energie in un’attesa, che non sa se e quando sarà esaudita con l’incontro. Ma non smette mai di sperare.

 

– Perché dici che “morte è esperienza di verità”?

Mi è capitato spesso di notare nel volto di un vecchio e in quello di un bambino, uno sguardo incredibilmente simile. Se il tempo fosse solamente una linea queste due situazioni di vita, l’infanzia e la vecchiaia, dovrebbero allontanarsi e invece si avvicinano. Credo che entrambi vedano meglio quello che c’è prima e quello che c’è dopo. Forse non ne sono coscienti, o forse quello che sanno non è raccontabile, ma hanno vissuto una verità che li rasserena. Per questo dico che chi è vicino alla morte, comincia a intuire le risposte alle domande di una vita.

 

– E perché lo scegliere sarebbe “sperimentare l'eliminazione di un tratto fuori dai confini”?

Immagina di dipingere con la tecnica dello stencil. Una mascherina su un foglio bianco e qualche pennellata di colore. Puoi permetterti movimenti grossolani, imprecisi. Quando hai finito, elimini la mascherina e l’immagine compare pulita, priva di sbavature. Così ho immaginato lo scegliere: togliere lo stencil. Eliminare il superfluo per vederci meglio. Rinunciare a qualcosa in nome dell’essenziale. Un maestro del teatro del ‘900, Jerzy Grotowski, racconta l’arte come “Atto di negazione”, spiegando che la creatività emerge quando si eliminano i blocchi e i clichés che la tengono imprigionata. Scegliere è l’espressione più concreta della libertà. Bisogna però allenarsi a vedere dove sta la mascherina, a capire quello che si può togliere.

 

– I personaggi principali della tua opera sono corposi e, al contempo, ricchi di colori sfumati. A quale/i, fra i tanti, ti senti più vicina?

Si parla di creature che sono nate e poi si sono staccate da me. Tutto è iniziato con l’artificio della narrazione, ma poi mi è sfuggito di mano, non mi è più stato possibile contraddire nessuna di queste individualità. Hanno ancora in sé tracce dell’autore, ma poi lo hanno superato. Più che creati, lì ho spiati, ho tentato di indossare le loro scarpe. Ho fatto come Milac fa con lo stilita, sono stata nascosta a guardarli. Da qui è nata una struttura fatta di punti di vista. Detto questo, posso ammettere che mi sento particolarmente vicina ai personaggi femminili del mio libro, nella loro diverse sfaccettature.

 

Roberto Fantini

(da Free Lance International Press, 14 settembre 2014)

 

 

Sara Culzoni nasce nel 1990 a Correggio (RE), dove passa infanzia e adolescenza, scoprendo subito la passione per la penna, ma anche per i colori. Dopo il liceo artistico, si trasferisce a Milano e si laurea in Linguaggi dei Media all’Università Cattolica. Ora, sempre a Milano, frequenta la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”, come drammaturga. Scrive testi per il teatro e in generale per lo spettacolo dal vivo, con un particolare interesse per l’opera lirica e il musical.

 

 

Sara Culzoni, Beit Dabar

Europa Edizioni, 2014, pp. 66, € 9,50


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