Giovedì , 28 Marzo 2024
VIGNETTA della SETTIMANA
Esercente l'attività editoriale
Realizzazione ed housing
BLOG
MACROLIBRARSI.IT
RICERCA
SU TUTTO IL SITO
TellusFolio > Nave Terra > Oblò africano
 
Share on Facebook Share on Twitter Share on Linkedin Delicious
Sara Tagliati. Lo stupro come strumento di guerra: una lettura critica del caso Ruanda
Il Ruanda
Il Ruanda 
27 Ottobre 2014
   

Gli scopi dello stupro nei conflitti armati e civili

Nel 1993, al termine della Conferenza Mondiale sui diritti umani e con l'approvazione della Dichiarazione di Vienna sull'eliminazione della violenza contro le donne, le Nazioni Unite (NU) definiscono la violenza di genere ogni atto di violenza fisica, morale, sessuale ed economica compiuto da un uomo ai danni di una donna.

L'abuso sessuale nei conflitti armati e civili, lo stupro impiegato come arma di guerra, il rapimento e l'arruolamento di bambine e ragazze combattenti1 rientrano nella definizione di violenza di genere.

La storia ricorda e piange gli uomini che in guerra hanno perso la vita dimenticando che le prime vittime civili sono donne e bambine che subiscono umiliazioni, maltrattamenti, torture e abusi. Sovente sono rese schiave e costrette al lavoro forzato, dai nemici e dagli stessi alleati, nonché obbligate alla prostituzione. Le brutalità di cui sono oggetto provocano ferite fisiche e traumi psicologici difficili da affrontare che lasciano su corpo e spirito segni indelebili.

L'impostazione maschilista nel pensiero pubblico, nelle politiche e nella struttura sociale giustifica il silenzio sulle atrocità commesse ai danni delle donne e la riluttanza da parte degli uomini politici a intervenire per condannare lo stupro.

In guerra le protezioni sociali, già carenti per le donne, vengono meno. Civili e soldati perdono identità, umanità e dignità; infieriscono su corpi femminili, difesi da un ordine militare che glielo consente e dalla mancanza di politiche che contrastino efficacemente la violenza di genere.

La donna gioca un ruolo determinante per la sopravvivenza e l'integrità della famiglia; il suo contributo allo sviluppo del Paese cui appartiene è significativo. I soldati sono consapevoli della sua importanza e fanno della violenza una strategia militare per distruggere la cultura di cui la donna è simbolo, la famiglia di cui è tutrice, la comunità di appartenenza.

Tra i leader politici e i capi militari è diffusa l'idea che lo stupro sia inevitabile e che il saccheggio e la violenza siano valori aggiunti, vantaggi di cui beneficiare per stimolare e motivare i soldati in battaglia. I comandanti autorizzano e talvolta ordinano la razzia di beni, tra cui figurano le donne nemiche quali oggetti sessuali da violare per soddisfare bisogni repressi. Lo stupro anima il morale, quindi è molto efficace per determinare le sorti del conflitto.

Le truppe riservano violenza anche alle donne della propria comunità. Rapiscono adolescenti e bambine per renderle schiave a loro servizio, perché badino ai feriti, preparino e servano i pasti, provvedano ai bisogni primari dei soldati tra cui quelli sessuali. Forte è l'idea che il genere femminile debba offrire il corpo per contribuire allo sforzo di guerra.

Per limitare gli stupri tra la popolazione civile e con lo scopo di incitare o distrarre i soldati, molte sono le donne costrette alla prostituzione. I bordelli costruiti e i campi di stupro organizzati sono considerati un male minore, ancora una volta nell'ottica che gli stupri non possano essere evitati. L'esempio più eclatante è quello delle comfort women, donne di diversa origine, per la maggior parte cinesi, coreane, filippine e indonesiane, che subirono molteplici e continue violenze nel corso del secondo conflitto mondiale; vere e proprie schiave sessuali a disposizione dell'esercito nipponico, reclutate con false promesse o rapite e imprigionate in bordelli militari costruiti e potenziati dallo stesso governo giapponese nel tentativo di arginare l'esteso fenomeno degli stupri di massa.

Le prime donne reclutate erano maggiorenni e avevano una pregressa esperienza di prostituzione. In breve tempo il fenomeno delle comfort station assunse dimensioni tali da rendere impossibile l'utilizzo di sole donne giapponesi. Furono assunti mediatori civili con lo scopo di cercare e attrarre in Giappone donne di altra nazionalità per rifornire i bordelli e soddisfare le sempre più numerose richieste dei soldati. Prese corpo una vera e propria tratta, non diversa da quelle che ancora oggi oscurano il futuro di molti Paesi considerati in via di sviluppo, primo fra tutti la Nigeria.

Più recentemente in Bosnia furono improvvisati campi di stupro, lager collocati dentro bar, magazzini, appartamenti privati o alberghi ove le donne venivano segregate e abusate dai soldati con lo scopo di renderle gravide, utilizzate come strumento di ripopolamento della nuova Serbia. Le violenze non cessavano neppure dopo aver riscontrato la gravidanza. Solo intorno al settimo mese potevano ricevere un trattamento migliore, cure mediche e mangiare più volte al giorno. La violenza è istituzionalizzata, ha un luogo proprio e specifico ove essere consumata.

Lo stupro può essere arma di punizione. Penetrati in Prussia orientale il 16 ottobre 1944, imputando ai tedeschi la responsabilità della guerra, la fame sofferta, le perdite in famiglia, le atrocità subite o assistite, i soldati russi, avanzando verso Berlino, distrussero città, saccheggiarono abitazioni private, picchiarono e uccisero con ferocia i civili.

Venendo a conoscenza delle brutalità compiute dall'esercito sovietico sulla popolazione civile, molte famiglie tedesche, sperando di poter scampare alle violenze, tentarono la fuga. Ebbe luogo uno dei più grandi esodi della storia contemporanea: centinaia di migliaia di profughi si riversarono nelle strade, intasandole. Su di essi piombò la violenza sovietica.

Gli aerei dell'armata rossa bombardarono i convogli di civili tedeschi; i russi si diedero al saccheggio e al massacro di uomini e donne. Non risparmiarono anziani e bambini. bene confiscato era inviato in patria come parziale risarcimento per le pene sofferte.

Nella sola Berlino migliaia di donne e bambine tedesche subirono aggressioni sessuali, molte furono mutilate, altre brutalmente uccise. Il suicidio era il solo modo per scampare al trauma fisico ma soprattutto psicologico e riprendere possesso del proprio corpo.

Con lo stupro i soldati umiliano il nemico. Costringono mariti e figli ad assistere o commettere violenza sulle proprie donne per ledere il morale e indebolire le forze avversarie. Gli uomini perdono il ruolo di protettori e non è raro che a guerra conclusa le donne sopravvissute non possano far ritorno in famiglia: segnate per sempre dalla vergogna, alimentano il ricordo della guerra, il fallimento e l'umiliazione subita.

Quando lo scopo è l'annientamento di un'etnia la fertilità della donna è un pericolo. I soldati mutilano l'apparato riproduttivo femminile, talvolta servendosi dell'acido, per assicurarsi che tra i nemici non ci siano nuovi nati. L'asportazione del seno o lo sfregio della clitoride, delle grandi e piccole labbra sono modi per distruggerne la femminilità, praticate frequentemente ove la donna è percepita come rappresentazione del male. In Algeria o in Afghanistan i soldati ricorrono spesso a questa tortura per sfigurare e spogliare la donna dei suoi attributi demoniaci. Quando l'obiettivo del conflitto è la pulizia etnica, soldati e civili possono eliminare i segni esteriori distintivi della popolazione nemica. In Ruanda gli Hutu, spinti da sentimenti di vendetta, hanno devastato i corpi delle donne Tutsi mutilandone i nasi sottili e le dita affusolate, loro “tratti caratteristici”.

La violenza è praticata anche come arma di terrore per seminare il panico e allontanare la popolazione avversa dai territori che occupa. Questo presuppone una vicinanza anzitutto geografica ma anche sociale e culturale tra due popolazioni che convivono entro uno stesso spazio tra le quali vi sono sentimenti di odio, talvolta alimentato dalla propaganda. Le vittime conoscono nell'intimità i loro stupratori: colleghi, amici, familiari. In Bosnia la violenza è stata praticata per costringere i musulmani alla fuga, loro unica via di salvezza. Le forze militari serbo-cetniche nel corso della guerra civile hanno distrutto tutto ciò che fosse musulmano per cancellare ogni traccia non-serba sul territorio, non prima di aver saccheggiato case, rubato oro e gioielli, sequestrato il bestiame e profanato moschee. Hanno bruciato interi Paesi, ucciso o deportato gli uomini nei campi di concentramento, violentato brutalmente donne e bambine.

Lo stupro di massa può essere anche perpetrato per dimostrare la propria superiorità al nemico e mantenerne il controllo. Nel corso della seconda guerra mondiale l'esercito nipponico fece dello stupro un mezzo di repressione delle altre popolazioni. I soldati usarono violenza in modo particolare in Cina e nelle Filippine. Il 13 dicembre 1937 occuparono Nanchino, che a quel tempo era la capitale cinese. Le barbarie compiute per disprezzo e per diffondere terrore così da sottomettere i civili cinesi furono inaudite e si protrassero per sei settimane. Gli stupri registrati furono tra i 20.000 e gli 80.000; anche bambine e anziane subirono violenza.

 

Lo stupro nel diritto internazionale umanitario

Lo stupro perpetrato in guerra è un fenomeno che esiste da sempre sebbene la comunità internazionale sembri lentamente prenderne coscienza dal 1945, con la fine della seconda guerra mondiale, in seguito alle numerose testimonianze di donne e bambine, vittime di violenza nel corso del conflitto.

Per molto tempo, anche dopo il 1945, i crimini sessuali sono stati considerati danni collaterali alla guerra, una concezione che giustifica gli abusi e la brutalità dei soldati responsabili di violenza, minimizza l'immensità del dolore patito e rivela un mondo costruito al maschile. Occorre attendere altri anni, vittime, massacri prima che la comunità internazionale intervenga, prima che la presa di coscienza si traduca in disposizioni atte a garantire reale tutela alle donne in guerra.

Il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, istituito nel 1945 per giudicare i criminali nazisti, ignora lo stupro e le altre forme di abuso sessuale. Esso stabilisce che un atto sia da considerarsi crimine contro l'umanità se connesso a crimini di guerra e contro la pace. Le potenze vincitrici, i cui eserciti sono anch'essi colpevoli di violenze sulle donne, trascurano lo stupro perché ritengono non sia stato agìto con obiettivo strategico militare.

La carta del Tribunale Penale Internazionale di Tokyo, redatta nel 1949 per i crimini giapponesi, inserisce lo stupro tra gli atti di accusa ma la corte non gli attribuisce un'importanza pari a quella di altri crimini. Permane una visione maschilista.

Significativa è la quarta Convenzione di Ginevra perché attinente alla protezione dei civili in tempo di guerra, firmata nel 1949. Alcuni articoli riguardano le donne e l'articolo 27 si riferisce direttamente allo stupro. Recita: «Le donne saranno specialmente protette contro qualsiasi offesa al loro onore e, in particolare, contro lo stupro, la coercizione alla prostituzione e qualsiasi offesa al pudore». Si tratta di una visione ancora riduttiva della violenza perché ne minimizza la portata e gli effetti devastanti annoverandola tra le offese all'onore e al pudore.

I protocolli aggiuntivi alle quattro Convenzioni di Ginevra risalgono al 1977. La prima disposizione, inerente alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, si occupa anche e direttamente della tutela delle donne in guerra. Afferma il divieto di compiere atrocità che offendano il pudore e l'onore della persona e in particolare vieta la prostituzione e la violenza carnale. Il secondo protocollo, relativo alla protezione delle vittime nel corso di un conflitto interno, riconosce il diritto al rispetto e anch'esso vieta ogni offesa all'onore della donna: trattamenti umilianti e degradanti, stupro e prostituzione. Sebbene affrontata per la prima volta come violazione della dignità, la violenza è ancora sminuita nelle sue conseguenze.

Le guerre civili in Bosnia Erzegovina e in Ruanda, scoppiate rispettivamente nel 1992 e nel 1994, risollevano il problema delle violenze sulle donne e dello stupro impiegato sistematicamente e strategicamente come arma. Gli abusi sessuali, le torture e le umiliazioni che le donne subiscono in entrambe le nazioni risvegliano le coscienze e palesano la necessità che lo stupro sia ufficialmente riconosciuto quale crimine di guerra e crimine contro l'umanità affinché i responsabili siano giudicati e puniti.

Nel 1993 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite istituisce all'Aia l'International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (I.C.T.Y.) con la risoluzione n. 827 che fa del tribunale un organo proprio dell'ONU, atto a perseguire i reati commessi dal 1991 nel territorio della ex Jugoslavia. Il tribunale si occupa di gravi infrazioni al diritto internazionale umanitario, alle consuetudini e leggi di guerra, genocidio e crimini contro l'umanità. È il primo tribunale nella storia che annovera lo stupro tra i crimini di guerra e contro l'umanità riconoscendolo atto di tortura, grave violazione delle convenzioni di Ginevra e strumento di genocidio.

Nel luglio 1994, a guerra ormai conclusa, il nuovo governo ruandese chiede con insistenza alla comunità internazionale di perseguire gli autori del genocidio, accusandola di aver assunto un atteggiamento più attivo per risolvere in passato la crisi in Bosnia Erzegovina. L'ONU, consapevole di dover dare una risposta efficace a quello che appare come uno dei peggiori e più truculenti genocidi della storia, istituisce ad Arusha, in Tanzania, l'International Criminal Tribunal for Rwanda (I.C.T.R.), modellato sul tribunale jugoslavo.

L'organo giurisdizionale è competente a giudicare i responsabili del massacro e di altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Si occupa di crimini contro l'umanità, crimine di genocidio e crimini di guerra commessi nel 1994 da cittadini ruandesi in Ruanda e negli stati vicini e da cittadini non ruandesi all'interno dei confini nazionali.

Con il processo a Jean-Paul Akayesu, sindaco del comune di Tebe, colpevole di genocidio e di aver commesso, assistito e talvolta incoraggiato lo stupro delle donne Tutsi, il tribunale condanna lo stupro in quanto crimine contro l'umanità, crimine di guerra e per la prima volta come atto di genocidio perché diretto all'annientamento di un'etnia. Dalle testimonianze delle vittime i giudici riconoscono nella violenza sessuale uno strumento di pulizia etnica quindi strettamente connesso al genocidio. Altrettanto significativo è il processo a Pauline Nyiramasuhuko, ministro della famiglia all'epoca del genocidio, accusata di incitazione e organizzazione di stupri di massa.

 

Ruanda, 1994. La violenza sulle donne: un'arma di epurazione etnica

Lo stupro in Ruanda è stato uno degli strumenti al servizio del genocidio, un'arma di cui civili e militari si sono deliberatamente serviti per disseminare il panico, umiliare e rendere l'altro debole e indifeso così da dimostrare la propria superiorità; un'arma di pulizia etnica e di liberazione nazionale (durante i massacri lo stupro fu denominato kubohoza che in lingua kinyarwanda ha il significato di aiutare alla liberazione) per annientare un'intera popolazione.

Nell'aprile 1994, allo scoppio del genocidio, le autorità ruandesi istigarono civili e militari allo stupro, consci del fatto che le violenze e le mutilazioni perpetrate (che spesso seguirono gli stupri) avrebbero avuto effetti devastanti sull'intera popolazione Tutsi e avrebbero reso più agevole e rapido il lavoro di epurazione etnica.

I messaggi trasmessi alla radio e diffusi dalla stampa descrissero le donne Tutsi come spie o armi dell'FPR invitando la popolazione Hutu a ucciderle non prima di averle umiliate e degradate sessualmente. Dipinte come esseri diabolici che distraggono l'uomo allontanandolo dal focolare, le donne Tutsi subirono la violenza e l'odio delle Hutu che parteciparono in massa alla loro eliminazione prendendo parte direttamente agli stupri o alla loro organizzazione.

Descritte dai media come belle e sensuali (bizungeriè il termine in lingua kinyarwanda per designare le donne Tutsi con il significato di graziosa e provocante), come europee dalla pelle nera generate per il piacere, sono un insulto alle donne Hutu alle quali nuocciono socialmente e un oggetto sessuale inaccessibile all'uomo che risveglia il suo desiderio e fomenta la sua aggressività.

Le caratteristiche fisiche e morfologiche dei Tutsi, che li rendono più simili agli europei, li hanno favoriti negli anni di colonizzazione belga. Le mutilazioni del naso sottile o delle lunghe dita e l'amputazione dei piedi con l'intento di accorciare la loro altezza, sono torture riservate alle donne Tutsi per soddisfare il desiderio di vendetta nutrito a causa dell'oppressione che gli Hutu subirono in passato.

Per incrementare esponenzialmente la diffusione dell'AIDS, il governo organizzò battaglioni di stupratori reclutando malati e portatori del virus negli ospedali.

Gli Hutu violentarono le donne facendo uso di oggetti taglienti, di acqua bollente o di acido versato nella vagina per mutilarne l'apparato riproduttivo e assicurarsi che tra il nemico non potessero esserci nuove nascite. Le donne gravide, sventrate prima di essere uccise, furono vittime di femminicidi in quanto colpevoli di accogliere e tenere in vita futuri soldati nemici. Lo sfregio della clitoride, delle grandi e piccole labbra e l'asportazione del seno sono torture praticate per distruggerne la bellezza e la femminilità.

Lo stupro commesso dai miliziani, che si introducevano in gruppo nelle case alla ricerca delle donne Tutsi, sono di una brutalità e di una violenza tali che le poche donne a cui fu offerta la possibilità di scegliere, preferirono la morte.

Molte sono le donne distribuite ai miliziani come una ricompensa per i massacri compiuti o un bottino di guerra e tenute prigioniere per appagare i loro bisogni sessuali. Sono stati celebrati matrimoni forzati e in alcuni casi la donna è rimasta volontariamente accanto al marito. Le donne dei soffitti, così definite perché tenute rinchiuse in un'intercapedine tra il tetto e il soffitto per non essere scoperte e uccise da altri, sono private di ogni bene e diventano schiave. Provano enormi conflitti interiori e soffrono di una sindrome di colpevolezza perché sono debitrici verso gli uomini che devono chiamare marito ma che disprezzano perché in loro riconoscono i responsabili delle morti dei propri cari.

Le donne sottomesse alla schiavitù collettiva non sono state recluse stabilmente in un luogo chiuso, come le bosniache nei campi di stupro o le comfort womencinesi, filippine e indonesiane in Giappone nel corso della seconda guerra mondiale, ma costrette a seguire le truppe nei loro spostamenti. Nonostante la promessa di essere uccise, sono tenute prigioniere e violentate ripetutamente con il pretesto di non avere sufficienti munizioni per ucciderle.

 

Sara Tagliati

 

 

1 Le bambine sono costrette a soddisfare i soldati e una volta congedate non possono far ritorno in famiglia per la vergogna di aver subito uno stupro o a causa della gravidanza conseguente.


Foto allegate

Un cimitero delle vittime del genocidio ruandese
Articoli correlati

 
 
 
Commenti
Lascia un commentoNessun commento da leggere
 
Indietro      Home Page
STRUMENTI
Versione stampabile
Gli articoli più letti
Invia questo articolo
INTERVENTI dei LETTORI
Un'area interamente dedicata agli interventi dei lettori
SONDAGGIO
TURCHIA NELL'UNIONE EUROPEA?

 72.7%
NO
 27.3%

  vota
  presentazione
  altri sondaggi
RICERCA nel SITO



Agende e Calendari

Archeologia e Storia

Attualità e temi sociali

Bambini e adolescenti

Bioarchitettura

CD / Musica

Cospirazionismo e misteri

Cucina e alimentazione

Discipline orientali

Esoterismo

Fate, Gnomi, Elfi, Folletti

I nostri Amici Animali

Letture

Maestri spirituali

Massaggi e Trattamenti

Migliorare se stessi

Paranormale

Patologie & Malattie

PNL

Psicologia

Religione

Rimedi Naturali

Scienza

Sessualità

Spiritualità

UFO

Vacanze Alternative

TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
Sede legale: Via Fontana, 11 - 23017 MORBEGNO - Tel. +39 0342 610861 - C.F./P.IVA 01022920142 - REA SO-77208 privacy policy