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Gli ottant’anni di un classico del teatro del Novecento: “L’opera da tre soldi” di Brecht
02 Settembre 2008
 

L’opera da tre soldi di Brecht ha ottant’anni e li dimostra; il testo, a vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, risulta un po’ ammuffito e il suo messaggio di equità sociale non più consono a una situazione storica del tutto mutata. Eppure il regista americano Robert Wilson ha dimostrato che la si può ancora mettere in scena, purché, naturalmente, la si condisca con tanta, tanta ironia. Proprio per celebrare questo anniversario il 31 agosto lo spettacolo di Wilson – in cartellone dallo scorso settembre e che in luglio è stato presente anche al Festival di Spoleto – è stato riproposto sullo stesso palcoscenico in cui Brecht lo presentò in prima mondiale il 31 agosto del 1928 nell’allora Theater am Schiffbauerdamm che dal dopoguerra è il teatro del Berliner Ensemble.

L’opera da tre soldi – libera rivisitazione di The Beggar’s Opera di John Gay – ha avuto una storia particolare anche in Italia: quando Giorgio Strehler la mise in scena al Piccolo Teatro nel 1956, Brecht, che di lì a poco sarebbe morto, venne a Milano e applaudì con entusiasmo il lavoro del regista triestino che sarebbe diventato il suo mediatore esclusivo nel nostro paese.

Ma cos’ha fatto il texano Wilson di questo “dramma con musica” (di Kurt Weill, anche se qui un po’ arrangiata dagli otto strumentisti che suonano dal vivo diretti Hans-Jörn Brandenburg und Stefan Rager), che consta di un preludio e tre atti suddivisi in 8 quadri? Ne ha fatto uno spettacolo giocato sull’ambivalenza, che libera il copione da ogni pesantezza e lo sposta nello spazio leggero del cabaret e del musical, ricorrendo a citazioni ispirate al circo, al film muto, ma anche alla caricatura estetica di cartoon come i Simpson. E mentre i personaggi sono esagerati – con quelle loro facce bianche da clown, i loro abiti vuoi troppo semplici vuoi improbabili, il loro trucco eccessivo, la loro divertente sguaiatezza, la loro dimensione macchiettistica da avanspettacolo –, la scena è essenziale, ridotta un reticolo, di volta in volta variegato, di linee che, insieme al costante cambio di luci, ridanno perfezione geometrica al mondo caotico dei malavitosi di una Londra fuori dal tempo, in cui tutto è soggetto alla legge del denaro. Sculetta soddisfatta con il suo immenso deretano imbottito la signora Peachum (Traute Hoess) quando sente entrare tintinnando le monete nelle casse del marito (Jürgen Holz), impresario molto particolare che ha al suo servizio un gruppo di finti mendicanti, da lui sguinzagliati per tutta la città, da cui pretende laute percentuali sugli introiti. Faccendiere non meno privo di scrupoli è il suo deuteragonista Mackie (Stefan Kurt), che con il denaro pensa di potersi comperare tutto: dalla fedeltà dei suoi scagnozzi alla connivenza del poliziotto Brown, e che divide i suoi favori fra Lucy, Polly Peachum e la Jenny delle Spelonche (Angela Winkler), sua prostituta preferita di un locale di malaffare, la quale alla fine lo tradisce, per odio non meno che per denaro. Tutto corre sul filo della tragedia finché alla fine l’intervento “portentoso” di un araldo inviato dalla regina salva la vita al ganimede Mackie quando, ormai sul patibolo, ha già il cappio attorno al collo. Tutto è farsesco e gradevole, ma sempre ben calcolato e proposto di un’alternanza di canzoni e passi recitati, di gag e cinismo, di rumori assordanti e raffinatissime silouhettes, di contrasti fra colori abbaglianti da baraccone e luci sapientemente smorzate, che invita a osservare il mondo con scettico distacco e non lascia più spazio all’ottimismo, nonostante il lieto fine.

 

Gabriella Rovagnati


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