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Gabriella Rovagnati. L’insulsaggine della cosiddetta buona borghesia in scena in tre spettacoli a Milano
19 Gennaio 2014
 

Nei teatri milanesi è possibile assistere in questi giorni a tre spettacoli che massacrano – in modi diversi – gli ideali e i sogni della borghesia, smascherandoli come fasulli. Si tratta di tre copioni “classici” del teatro del secondo dopoguerra, anche se, per la verità, la prima di Lo zoo di vetro di Tennessie William, ora in scena al Teatro “Menotti”, fu rappresentata per la prima volta a Chicago già nel dicembre del 1944. Ambientato nella Saint Louis degli anni Trenta, in preda alla crisi succeduta a Wall Street, il copione presenta tre personaggi che, in nome dell’amore materno e filiale, si tormentano e si soffocano a vicenda, e, tutti e tre alla ricerca di un’alternativa al grigiore della loro quotidianità, si rifugiano nei loro mondi di fantasia. La madre, Amanda, figlia dell’aristocrazia degli stati dal sud, non smette di rivangare con nostalgia il proprio passato di gran dama, allora bella e molto corteggiata, anche se ormai vive in uno squallido appartamento insieme ai due figli. Abbandonata da tempo dal marito, la signora è ora economicamente dipendente dal misero stipendio da magazziniere del figlio Tom, che la mantiene insieme alla sorella maggiore, Laura, una ragazza che un lieve difetto fisico – un’andatura leggermente claudicante – ha reso particolarmente sensibile e poco incline alle relazioni sociali. Mentre Tom trova nella frequentazione maniacale del cinema una valvola di sfogo, Laura si è costruita il suo mondo ideale in una collezione di piccoli animaletti di vetro – da qui il titolo del dramma – che custodisce gelosamente. Un bagliore di speranza sembra entrare nell’angusto salotto del trio quando Tom, istigato dalla madre che smania dal desiderio di accasare la propria figliola, invita a cena una sera un collega. Soprattutto Amanda vive quell’invito come l’evento che darà una svolta alla loro situazione; ma l’ospite, dopo essere riuscito a vincere l’estrema timidezza di Laura, rompe involontariamente l’animaletto dello zoo di vetro che è il preferito dalla giovane donna e che, non a caso, è un unicorno, ossia un animale fantastico. Le chimere del trio hanno infatti una fine tanto fulminea quanto imprevista, quando l’amico di Tom dichiara di essere fidanzato e in procinto di sposarsi. Incapace di sopportare ulteriormente l’aria mefitica che regna in casa, Tom non si lascia fermare dal crollo delle illusioni di sua madre e, imbarcandosi per mete lontane, abbandona le due donne al loro destino, seguendo l’esempio di suo padre. Bravi i quattro attori, primo fra tutti Arturo Cirillo, che interpreta sia il ruolo di Tom sia quello del narratore che introduce e conclude la vicenda e firma anche la regia.

 

In scena all’Elfo è invece Morte di un commesso viaggiatore, il testo più noto di Arthur Miller. Scritto nel 1949, il dramma distrugge il cosiddetto “sogno americano” illustrando la vicenda di Willy Lomann, un rappresentante di commercio che, per tutta la vita, si è illuso di poter conquistare ricchezza e successo e che neppure di fronte al suo evidente fallimento si rassegna a prendere atto della propria miseria economica e umana. Alla moglie fedele e sottomessa non ha di fatto proposto altro che un’esistenza di provincia, angusta da ogni punto di vista, dove il confort della casetta in cui abitano è stato conquistato a suon di rate infinite, sempre accompagnate dal terrore dell’insolvenza. Nei due figli, Biff e Happy, Lomann ha sempre voluto vedere due persone straordinarie, mentre in verità non sono che due buoni a nulla, risultato di un’educazione fatta soltanto di illusioni megalomani. Happy non è altro che un “puttaniere”, come lo definisce la sua stessa madre, mentre Biff – che da adolescente ha scoperto suo padre con l’amante – ha perso da tempo ogni fiducia nel futuro e non è affatto diventato il campione sportivo che Lomann aveva voluto scorgere in lui ragazzino, ma un ladruncolo da strapazzo, lucido però nel considerare se stesso un fallito. Elio de Capitani, che cura anche la regia dello spettacolo, è affiancato in scena dalla sua compagna di vita, Cristina Crippa, che recita con intensità il ruolo della tipica moglie della middle class americana, sempre disposta alla speranza, incapace di scuotere se stessa e il marito, che alla fine si suicida, dal torpore dell’autoinganno. Vittima colpevole di una sorta di volontario ottundimento, il commesso viaggiatore vive fino alla fine in una dimensione del tutto sfasata rispetto alla crudezza della sua realtà e non trova altra via di scampo se non andandosi a schiantare con quell’auto con la quale per tutta la vita ha macinato kilometri per visitare clienti che neppure si presentano al suo funerale. Un bello spettacolo, forse un po’ troppo lungo, caratterizzato da un’acustica eccessiva – soprattutto là dove dalla concretezza si passa alla visione – che a tratti risulta irritante.

 

Si torna dall’America al vecchio mondo con La cantatrice calva, ora proposto dal “Piccolo”, il primo testo teatrale di Eugene Ionesco, scrittore romeno naturalizzato francese, scritto nel 1950 e oggi considerato il prototipo del “teatro dell’assurdo”. Tutto nel salotto buono di una casa alla periferia di Londra è rigorosamente inglese, dai mobili al cibo di cui si parla con insistenza, alle abitudini ritualizzate delle due coppie protagoniste, gli Smith e i Martin, tipici esponenti di un’umanità incapace di vero dialogo, ingessati dentro un ritmo di vita dettato dalle convenzioni esterne, che fa perdere loro di vista il senso dell’esistere. Il loro spettegolare sui vicini è altrettanto futile e folle quanto il loro accapigliarsi su questioni di una banalità sconvolgente, che li rende ridicoli sia nei litigi sia nelle improbabili riconciliazioni, ed esilaranti per il pubblico che assiste alle loro vacue beghe. Il gioco di Ionesco, basato su un uso del linguaggio fatto di cliché abusati, rende gli Smith e i Martin del tutto interscambiabili, accomunati dall’incapacità di una vera comunicazione e, quindi, di un vero scambio affettivo. L’allestimento al Piccolo, che riprende lo spettacolo nella regia di Massimo Castri, rendendo omaggio al regista morto non ancora settantenne lo scorso gennaio a Firenze, è appassionante e capace di far esplodere la platea, trascinata dalla bravura dei sei attori (oltre alle due coppie ci sono la domestica e un capo dei pompieri incaricato di spegnere un incendio che non è mai scoppiato) in una amara, ma quasi ininterrotta risata.

 

Gabriella Rovagnati


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