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Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia
01 Febbraio 2006
 

Che cos’è questa follia, Erasmo? «Io, un po’ facendo ignorare i mali, un po’ facendo in modo che non ci si pensi, qualche volta facendoli dimenticare, e qualche volta facendo sperare nei beni, talvolta spargendo un po’ del miele del piacere, soccorro gli uomini nelle loro sventure così gravi con tanta efficacia che non hanno voglia di lasciare la vita neppure quando il filo delle Parche è terminato ed è la vita stessa ad averli lasciati da un pezzo».

Così si esprime la Follia, nelle parole di Erasmo da Rotterdam (Geer Gerts, che assumerà il nome umanistico di Desiderium Erasmus, Rotterdam 1466 [secondo altri studiosi: 1469], Basilea 1536) in questo Elogio della follia («Enkômion môrias seu Laus stultitiae»; pubblicato a Parigi nel 1511; il cui titolo può essere inteso sia, appunto, come «Elogio della follia» da «Môros» = pazzo, sia come «Elogio di Moro» con riferimento al filosofo inglese Tommaso Moro) pubblicato ora dalla BUR nella collana “I classici del pensiero” (Rizzoli, 2005) nella traduzione di Luca D’Ascia, curatore anche dell’apparato delle note, e con un’introduzione di Roland H. Bainton. Dice proprio Bainton, dunque, che subito «entra in scena la Follia in persona e, come un professore, sale in cattedra per pronunciare un discorso dinanzi a una classe di studenti». È la Follia a tessere l’elogio di se stessa; ed a farlo in un modo ad essa particolarmente consono: in modo folle. Gli uomini non sono che attori, ingannati dalle stesse maschere che, via via, indossano. Dietro questo velo di menzogne, però: c’è la realtà. La Follia è un impulso vitale, una beata incoscienza, un’illusione, una menzogna vitale; è l’ignoranza che è contenta di sé. Io, la Follia: «sottometto alla mia giurisdizione tutte le cose di qualsiasi genere, esercitando il comando sugli stessi comandanti». Tutta la vita umana è fondata su menzogne; da una parte queste menzogne velano la cruda realtà mentre dall’altra esse costituiscono l’attrattiva maggiore della vita. Ed ancora: «perché dovrei rimpiangere di non avere un tempio, visto che il mio tempio è questo universo, se non mi sbaglio il più bel tempio possibile?».

La Follia, perciò, dice e dice e si dice impostura, ma impostura imprescindibile della vita. Erasmo – umanista, aristocratico, schivo, indipendente e geloso della sua indipendenza, pacifico, satirico – porta sulla scena l’insensatezza per smascherare il senso della ragione e della ragionevolezza e per mettere a nudo la decadenza morale del suo tempo (soprattutto della Chiesa). I suoi strali, al fondo, sono però segnali di un impulso ad agire molto costruttivo: egli vuole ricondurre la vita umana a quella semplicità e purezza propria del cristianesimo delle origini. Che discorso fa, perciò, alla fine la Follia? Un discorso folle, lo si è detto; che cos’altro ci si può aspettare che essa faccia e dica? Ma… C’è dopo tutto da prestare fede alla Follia? L’elogio che essa conduce di se stessa ha qualche aderenza sia pur minima con la realtà? O siamo forse di fronte a quel classico gioco letterario che «ha per fine il puro piacere estetico degli ascoltatori?». È chiaro che tutte queste domande sono una sola domanda: è davvero folle la Follia di Erasmo? Per fortuna noi abbiamo un elemento per giudicare ciò: è la Follia che sta elogiando se stessa. Ma tutto ciò è folle? Evidentemente, per elogiarsi, la Follia si deve apprezzare, e per apprezzarsi essa deve possedere un’alta considerazione di sé. A questo punto una forbice si apre. O la Follia riesce effettivamente a capire che i meriti (che essa sta decantando di sé) corrispondono a degli effettivi vantaggi per gli uomini, oppure la Follia (in maniera del tutto arbitraria) si considera davvero importante per tutto e per tutti. Nel primo caso: la Follia sta dicendo la verità. Nel secondo caso: la Follia è folle.

Ma ecco che interviene Erasmo in persona a chiarirci come stanno le cose: «in me non c’è posto per il trucco e non fingo con la mia espressione qualcosa di diverso da ciò che nascondo nel cuore» dice la Follia. Dunque: la Follia è certa della sua verità. I filosofi, dopo Erasmo, verranno definiti in vari modi; a volte «profeti di sventura» altre volte «maestri del sospetto» altre volte ancora «cattivi maestri». Da Erasmo in avanti: i filosofi non sarebbero più stati certi quasi di nulla; meno che mai di se stessi o della loro verità. Il fatto che la Follia sia così certa di sé, agli occhi dello stesso filosofo Erasmo – un «genio volterriano» lo chiamò Whilhelm Dilthey – non è dunque una prova certa (o forse folle) del fatto che essa non sta dicendo la verità? Del fatto che (essa stessa imbroglio per sua natura) in questo «Elogio» la Follia stia fingendo se stessa? Che stia fingendosi, persuasa di dirsi nella verità? Il fatto che la Follia sia così certa di se non è, dunque, una prova certa del fatto che la Follia sia davvero folle?


Gianfranco Cordì


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