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Gianfranco Cordì. Debole, fragile, limitato
03 Giugno 2011
 

Mettere in moto una riflessione intorno al “pensiero” è già, di per sé, un’operazione astratta. Se a questo si aggiunge che quella stessa riflessione riproduce al suo interno un oggetto che si presenta (nella sua struttura) in maniera anch’esso astratta, ci si accorge che le linee della generalizzazione (in un caso di questo tipo) sono altamente impiantate e definite. È quanto accade nell’opera Il pensiero debole, collazione di scritti di diversi autori curata da Gianni Vattimo (Torino, 4 gennaio 1936) e Pier Aldo Rovatti (Modena, 19 aprile 1942) per una pubblicazione della “Universale Economica Feltrinelli” (2010) uscita originariamente (novembre 1983) nella collana “Idee” della stessa casa editrice.

Se la prima astrazione concerne, appunto, lo stesso tema del libro (la razionalità, la dialettica, la differenza, la metafisica), la seconda riguarda il cuore preciso della proposta filosofica di Vattimo e Rovatti. Il pensiero, storicamente, è stato caratterizzato da una sua connotazione “forte”. Afferma infatti Umberto Eco: «Ci sono due ideali di pensiero “forte”. In un primo caso si aspira a un pensiero così complesso (ma al tempo stesso organico) che possa rendere ragione della complessità (e organicità) del mondo della nostra esperienza o mondo-naturale. Nel secondo caso si aspira a costruire un mondo-modello ridotto in modo tale che un pensiero, non così complesso da essere incontrollabile intersoggettivamente, possa rispecchiarne la struttura». In sostanza: riuscire a decifrare la realtà attraverso alcune categorie fondanti e rappresentarsi un certo qual archetipo che riesca a raffigurare l’anatomia del soggetto investigato. Il pensiero “forte” è perciò quello «della cogenza deduttiva» (Vattimo). O, come dichiara Pier Aldo Rovatti: «La situazione del pensiero “forte” è infatti quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali: si tengono in una stretta, in una corrispondenza speculare». Siamo, cioè, nella condizione in cui è possibile reperire «principi superiori… fini ultimi… verità definitive» (Rovatti). È la situazione in cui «la forza del pensiero» ha a che fare «con la sua ultimatività» (Rovatti). Franco Crespi osserva invece che, in casi some questo, ci troviamo di fronte alla «consapevolezza della mancanza di fondamento assoluto». Tanti modi per dire, insomma, una identica congiuntura: «non si dà una fondazione unica, ultima, normativa» (Vattimo). A causa di quale avvenimenti ci si è venuti a trovare in questa circostanza? Asserisce Franco Crespi: «l’esperienza della fine del fondamento appare come il risultato, solo apparentemente paradossale, del relativo rafforzamento delle condizioni materiali dell’esistenza umana, dovuta all’affrancamento progressivo delle esigenze primarie della sopravvivenza e dal regno della necessità, grazie allo sviluppo economico e tecnico».

Cause sociali ma anche, per così dire, architettoniche e costitutive. Ma non basta ancora. La nuova temperie culturale e filosofica è nata anche perché (come indicano i due curatori in sede di «Premessa»): «si debba prender sul serio la coperta nietzschiana, e forze anche marxiana, del nesso tra evidenza metafisica (dunque cogenza del fondamento) e rapporti di dominio, dentro e fuori il soggetto… senza tuttavia declinare immediatamente questa scoperta in una filosofia dell’emancipazione attraverso lo smascheramento e la demistificazione, ma anzi rivolgendo un nuovo e più amichevole, perché più disteso e meno metafisicamente angosciato, sguardo al mondo delle apparenze, delle procedure discorsive e delle “forme simboliche”, rendendole come il luogo di una possibile esperienza dell’essere… non però nello spirito di una “glorificazione dei simulacri” (Deleuze), che finirebbe per conferir loro lo stesso peso dell’ontos on metafisco, ma nella direzione di un pensiero capace di articolarsi (dunque di “ragionare”) nella mezza luce (secondo uno dei verosimili sensi della Lichtung heideggeriana)… intendendo anche l’identificazione – assai problematica – di essere e linguaggio che l’ermeneutica riprende da Heidegger, non come un modo di ritrovare l’essere originario, vero, che la metafisica ha dimenticato nei suoi esiti scientistici e tecnologici; ma come una via per incontrare di nuovo l’essere come traccia, ricordo, un essere consumato e indebolito (e per questo soltanto degno di attenzione)». È esistita dunque, una posizione iniziale (quella propria del pensiero “forte” capace di spiegare le cose e gli avvenimenti del mondo con una totale aderenza tra capacità interpretativa e fatto interpretato). Ed è esistita, in seguito, una dislocazione di crisi, di disturbo, di interferenza. Qualcosa ha cambiato di posto. La speculazione “forte” non è stata più in grado di rendere conto dell’esistenza. A causa di questo scompenso il pensiero (come recita il titolo della raccolta feltrinelliana) è dovuto rendersi debole. È stato costretto, insomma, a mutare di natura e di aspetto. È stato obbligato a ridursi, rimpicciolirsi, diminuirsi, accorciarsi. Per poter ancora decodificare l’esatta effettività del mondo, la speculazione si è decurtata ad un bonsai. Il pensiero ha così perso vigore. «La razionalità deve, al proprio interno, depotenziarsi, cedere terreno, non aver timore di indietreggiare verso la supposta zona d’ombra, non restare paralizzata dalla perdita del riferimento luminoso, unico e stabile, cartesiano» (Vattimo). La razionalità è stata costretta a svigorire i suoi stessi tratti metafisici: la necessità, l’univocità, la verità apodittica. Ma non solo. La logicità ha avuto l’obbligo di praticare questa debilitazione in se stessa e partendo da se stessa. Ecco il secondo momento, la seconda astrazione di cui si diceva all’inizio. Il pensiero debole non solo costituisce una meditazione astratta riguardo al suo oggetto, ma all’interno di questo stesso oggetto si muove in maniera ideale per coglierne caratteristiche e peculiarità. Il pensiero (astratto) da se stesso (e quindi in maniera astratta) si sfibra per giungere ad un ancora possibile stato di giudizio e di valutazione della positività fisiologica. I due momenti (e le due irrealtà) tendono così a costituire il senso di una coagitazione prettamente teoretica e metafisica. La nuova situazione in cui il pensiero debole si viene a trovare è connotata, dunque, dai seguenti tratti: «l’esperienza da cui possiamo muovere, e a cui dobbiamo essere fedeli, è quella dell’innanzitutto e per lo più quotidiano, che è anche sempre storicamente qualificata, culturalmente densa» (Vattimo), «forse il modello a cui pensare… è quello che si dà nella critica letteraria e artistica» (Vattimo), «il “pensiero debole” chiede una modificazione tanto dell’oggetto della conoscenza quanto del soggetto del conoscere» (Rovatti), «questo “pensiero”, se ancora possiamo chiamarlo così, non è un conoscere» (Rovatti) e «la consapevolezza circa i limiti del sapere viene infatti a contrapporsi all’esperienza forte del pensiero caratterizzata dal possesso della verità e dal fondamento assoluto, e, incrina radicalmente le basi della legittimazione del potere e della norma» (Crespi). Un nuovo pensiero, perciò, che privilegia le procedure discorsive, in cui l’essere è considerato come una traccia, un ricordo, un’apparenza, dentro cui si da maggiore spazio al canone rispetto che alle eccezioni ed al patrimonio costituito piuttosto che alle illuminazioni profetiche, una concezione che predilige il mostrare piuttosto che il dimostrare. Nella consapevolezza che, come constata Franco Crespi: «l’esperienza dell’assenza di fondamento ci invita quindi ad accettare l’insostenibilità come condizione normale dell’esistenza» e che «quanto più cresce la consapevolezza circa l’assenza di fondamenti assoluti, tanto più aumenta l’ansia dovuta all’insicurezza che tale consapevolezza genera inevitabilmente». Si passa così da un livello di certezza -per mezzo di una crisi- ad un livello contrassegnato ora dall’insicurezza. E questo percorso viene altresì compiuto attraverso una doppia mentalizzazione. Non si esce, in qualche modo, mai al di fuori dei limiti della ontologia e del consideratezza. Il nuovo panorama, demarcato dal pensiero debole, è, a questo punto, riconoscibile come frattale, sconnesso, insidioso, relativistico, ingannevole.

In questo scenario, l’unico atteggiamento possibile nei confronti della tradizione è quello che Vattimo e Rovatti designano con le seguenti parole: «il “pensiero debole” può riavvicinarsi al passato attraverso quel filtro teorico che si può chiamare “pietas”». Quest’ultima è una parola che «evoca» molto da vicino, afferma il solo Vattimo: «la mortalità, la finitezza, la caducità». Un piccolo pensiero per piccole giustificazioni e per micro-fondamenti, dunque; un pensiero per una razionalità a più corto raggio e per una approccio alla verità operato mediante il criterio dei tentativi e degli errori. Una intelligenza che non legge più la realtà totalmente ed in maniera completa. Ma che si accontenta di tanti minuscoli “forse” e di significati a loro volta sempre integrabili. Se è vero che la temperie da cui è venuto a scaturire il pensiero debole è dovuta alle considerazioni di Nietzsche, Wittgenstein ed Heiddegger, è del pari vero che - rispetto a tutta la filosofia del passato - questo nuovo atteggiamento si pone in «una relazione che non è principalmente e soltanto di “superamento”, ma piuttosto si definirà mediante il termine heideggeriano di Verwinduung, termine esso stesso comprensibile solo entro una visione “debole” di che cosa significhi pensare» (Vattimo). Ora, Verwinduung vuol dire «la declinazione-distorcimento, e il rimettersi (rimettersi da, rimettersi a, rimettersi nel senso di inviarsi» (Vattimo), ovvero un particolare nesso individuato dalle due idee dell’accettazione e della distorsione. Nei riguardi del già accaduto si ha adesso un approccio (simultaneo) che prevede una presa d’atto e una alterazione. Ciò, in riferimento, appunto, al cosiddetto pensiero “forte”. E se è vero come è vero che il concetto di pensiero debole nasce, fin da subito, con un senso immediatamente connettivo (la sua caratterizzazione è, infatti, saldamente addentellata a quella del pensiero “forte”), è anche pacifico che questo nuovo tipo di ragionamento viene a dire anche qualcosa peculiarmente di suo. Esso dice finalmente che è possibile, pur tuttavia, continuare a sussistere in un contesto nel quale non ci sono più verità definitive, strutture fisse e paradigmi perentori. Ed in aggiunta: che è ancora possibile continuare ad argomentare sia pure in maniera più circoscritta.

Il volume (oltre alla «Premessa» scritta a quattro mani dai due curatori) si compone di 11 saggi. Essi sono: Dialettica, differenza, pensiero debole, di Gianni Vattimo, Trasformazioni nel corso dell’esperienza, di Pier Aldo Rovatti, L’antiporfirio, di Umberto Eco, Elogio dell’apparenza, di Gianni Carchia, L’etica della debolezza. Simone Weil e il nichilismo, di Alessandro Dal Lago, Invecchiamento della «scuola del sospetto», di Maurizio Ferraris, La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo, di Leonardo Amoroso, Wittgenstein e le ruote che girano a vuoto, di Diego Marconi, Quando sul paese innevato silenziosamente appare il Castello… (La propensione narrativa di fronte al paesaggio inenarrabile), di Giampiero Comolli, L’uomo senza identità di Franz Kafka, di Filippo Costa e Assenza di fondamento e progetto sociale di Franco Crespi.

 

Gianfranco Cordì


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