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Holly Kearl. La strada e le donne
25 Aprile 2011
 

Cos’hanno in comune una donna di Bangalore, India, che aspetta un autobus ad un angolo di una strada affollata, un’adolescente del Queens di New York, vestita della sua uniforme scolastica, che aspetta il treno della metropolitana, e una ventenne di Drammen, Norvegia, che infagottata nel suo cappotto invernale torna a casa da sola dopo aver fatto visita ad un’amica?

Per tre anni, donne come queste, da trenta diversi paesi, hanno condiviso le storie delle molestie da loro subite sul mio blog Stop Street Harassment (Mettiamo fine alle molestie in strada). Nei loro interventi riferiscono dettagliatamente gli espliciti commenti sessuali, i rimarchi sessisti, i toccamenti, i gesti volgari, i fischi e le masturbazioni pubbliche che gli uomini impongono loro sulle strade, sui trasporti pubblici e nei negozi: solo perché sono femmine e si trovano in uno spazio pubblico.

Dopo aver scritto la mia tesi di laurea sulle molestie di strada quale studente della “George Washington University”, ho deciso che volevo fare di più rispetto a questo problema. Attraverso il blog, fornisco uno spazio dove persone da tutto il mondo possono condividere le loro esperienze ed aumentare la consapevolezza su quest’istanza globale. Stop Street Harassment è una piattaforma dove scambiare idee su come maneggiare la questione, che si sia fatto esperienza delle molestie o che si sia testimoni di esse.

I pochi studi a disposizione mostrano che la prevalenza delle molestie di strada è davvero alta. Più dell’80% delle donne ne hanno fatto esperienza in Canada ed Egitto; India e Yemen portano la cifra al 90%. E in solo due indagini condotte ad Indianapolis (Indiana) e nella Bay Area della California la cifra sale al 100%.

Mi sento oltraggiata da questa faccenda perché, a differenza di altre forme di aggressione, le molestie di strada sono riportate come complimenti, o seccature minori, o colpa delle donne stesse. Le molestie in strada sono un’istanza seria: impediscono alla donne di avere lo stesso accesso degli uomini agli spazi pubblici, o del sentirsi in essi benvenute e a proprio agio quanto gli uomini. Le molestie costringono le donne a stare costantemente in guardia, a controllare i dintorni, a nascondersi, ad evitare i contatti tramite sguardo e ad avere il cellulare sempre pronto in caso di bisogno.

E questi sono i dati delle mie ricerche: su base mensile, il 45% delle donne evita di trovarsi in spazi pubblici la sera, ed il 40% evita di trovarvisi da sola. Una su cinque ha cambiato casa per evitare le molestie e una su dieci ha cambiato impiego perché i molestatori le seguivano lungo il percorso casa-lavoro.

A volte mi sento disperata per la vastità della questione. Lo scorso anno, ho avuto l’idea di organizzare un giorno internazionale d’azione per far conoscere la pervasività delle molestie in strada e per contribuire a rompere il silenzio che le circonda. Ho pensato di dichiarare il 20 marzo, giorno dell’equinozio di primavera, Giorno contro le molestie in strada. Speravo di trovare 500 persone che volessero fare qualcosa il 20 marzo: condividere le loro esperienze, parlare ai membri delle loro famiglie della questione, e magari organizzare un evento o una manifestazione. Mi è stato subito chiaro che avevo toccato un nervo scoperto, perché gente da tutto il mondo sembrava aver atteso proprio quest’occasione per mettersi insieme e affrontare la cosa. Sono rimasta stupefatta dal numero di azioni organizzate, e dalle oltre 1.700 persone che mi hanno risposto su Facebook dicendomi che si sarebbero impegnate.

Il 20 marzo non sono quasi riuscita a staccarmi dal computer tanti erano i messaggi, i post, le foto inviate dalle attiviste e dagli attivisti: Praga, Città del Messico, Il Cairo, Sudafrica, Canada, Trinidad e Tobago, Nuova Delhi. L’incredibile successo del Giorno contro le molestie in strada, ed il continuo flusso di persone che mi contatta dicendo: “Se l’avessi saputo avrei partecipato anch’io”, significa che vi saranno altri Giorni simili negli anni a venire. E io so che ogni anno gli eventi saranno più vasti, con ancora maggior partecipazione, perché collettivamente ci rifiutiamo di restare in silenzio rispetto a questo problema e decidiamo di agire, di condividere le nostre storie, di chiedere che le aggressioni finiscano.

 

Holly Kearl

(estratto di un articolo di per The Women International Perspective, 15/04/2011,
trad. e adattamento di Maria G. Di Rienzo)

 

Holly Kearl lavora per l’Associazione americana delle donne universitarie a Washington, DC. È autrice del libro Street Harassment: Making Public Places Safe and Welcoming for Women (Praeger Publisher, 2010), e la fondatrice del sito www.stopstreetharassment.com.

Ha scritto articoli per The Huffington Post, The Guardian, AOL, Forbes e Ms.

 

 

 

Punzecchiature

(Un commento all’articolo precedente.)

 

Il 19/02/2011 la giornalista Farzana Rupa, riportata da parecchi siti antiviolenza, scrive:

«Le molestie sessuali dirette alle donne in Bangladesh stanno diventando mortali. Secondo i locali gruppi per i diritti umani quest'anno (vi ricordo che “quest'anno”, mentre lei scrive, significa 50 giorni - ndt) 28 donne si sono suicidate per sfuggire alle molestie. La maggior parte di loro, prima di togliersi la vita, ha lasciato una nota chiedendo la fine delle aggressioni conosciute qui come “punzecchiature serali”, in cui i ragazzi fermano le ragazze per strada, ridono di loro, gridano oscenità, le toccano, le spintonano o peggio. Afroza Begum siede al tavolo della cucina mentre mi passa il biglietto che sua figlia Shimi le ha lasciato: “Ho sofferto troppo a lungo a causa di quei ragazzi. Ho fatto del mio meglio per vivere. Ma non ho nulla con cui fermarli”. Dopo aver scritto questo, Shimi ha bevuto del veleno».

Le allegre goliardate che questa ragazzina subiva comprendevano bruciature di sigaretta sui seni, urina iniettata in lei con una siringa e capelli tagliati. Nessuno degli assassini di Shimi (così, giustamente, li chiama sua madre), dopo anni, è stato punito.

Farzana Rupa ha chiesto agli uomini che ne pensano delle molestie in strada. Questa è la risposta di Jafar Hasan, studente universitario: «Una ragazza deve coprirsi in modo adeguato, se non lo fa, se non indossa una sciarpa per la testa o se non è vestita con modestia, un uomo non potrà controllarsi dal fare cose cattive. Un uomo non può controllare il suo desiderio sessuale!»; e questa è la risposta di Abdur Rashid, commesso di una cartoleria: «Gli uomini possono indirizzare qualsiasi suono o commento alle donne. È nostro diritto, possiamo farlo».

Il 21 aprile 2011, i giornali italiani - metto fra virgolette le citazioni letterali dagli articoli - riportano la storia della tredicenne pachistana riempita di botte dal padre perché «al centro dell'attenzione degli altri ragazzini», i suoi compagni in una scuola media del parmense. È successo che quest'uomo ha visto sua figlia, fuori dai cancelli scolastici, attorniata dai bulletti che le indirizzavano «scherzi e battute» (a sfondo sessuale) in quello che tutti i media hanno descritto come un «gioco da ragazzi»: direi correttamente, è infatti un gioco da maschi in cui le femmine non si divertono, ma d'altronde non è previsto che lo facciano. Per essere veramente un bel gioco, e far gongolare i suoi partecipanti, la ragazza al centro dell'attenzione deve vergognarsi, arrossire, cercare di sfuggire, sentirsi umiliata. Padri e fratelli e in genere gli uomini della sua famiglia, assistendo alla scena e decifrandola allo stesso modo dei due signori del Bangladesh sopra riportati, che si trovino in Pakistan, in India, in America o in Italia, cosa possono fare? Puniscono della vergogna l'abietta creatura che l'attira su di sé, e quindi su di loro.

Sono forse meritevoli di reprimenda i vivaci fanciulli accecati dal testosterone già a tredici anni? Hanno forse il dovere di rispettare le loro coetanee? Naturalmente no, e oltretutto la pensano anche loro come Jafar, Abdur, ed il padre della ragazza molestata. La colpa è sua. Esiste. Esiste come femmina. Provoca e suscita desideri esistendo come femmina. Non ha scampo, non ha scelta, se non scomparire nel veleno come Shimi o mostrarsi seminuda avvolta attorno ad un palo di lap dance. La sua sessualità (maledetta, vorace, spaventosa) è tutto ciò che la definisce e tutto cià che di lei ci interessa, tutto ciò a cui lei serve e tutto ciò a cui lei è destinata.

Chi dobbiamo ringraziare per le vite infami che le ragazzine conducono a causa di questi convincimenti, i fondamentalisti religiosi del “copriti, copriti” o quelli governativi dello “scopriti, scopriti”? Io credo che siano le due facce dello stesso individuo simbolico, un idiota sadico e tronfio che pensa al suo apparato genitale come alla definizione di umanità ed eccellenza e che ripete ad ogni donna incontri sul suo cammino: “Vedi? Tu non sei come me, quindi non sei un essere umano, non ti devo nessun rispetto, è mio diritto dire a te e fare di te quel che voglio”.

Intanto, gli “operatori” spiegano sui quotidiani che il pestaggio subito dalla ragazza pachistana è «legato alle diversità culturali, che vanno affrontate». Insomma, è uno dei tanti problemi che “loro”, gli immigrati, si trascinano dietro. Il padre veneto uso a disciplinare a cinghiate i tre figlioletti di 6, 8 e 11 anni, e arrestato questo mese, ed il sedicenne calabrese che l'8 aprile ha sfasciato la testa alla “fidanzata” tredicenne con una pietra (e l'ha lasciata priva di sensi dove si trovava, con il risultato che la ragazzina è stata soccorsa in ritardo, ed ora è in coma) di che «diversità culturali» sono portatori? Come dobbiamo «affrontarle»?

Francamente non mi importa più, sagaci giornalisti ed esperti operatori, chiedervi il rispetto per le vittime della violenza di genere, so che questo frasario è ostrogoto per voi: ma vorreste almeno smettere di sporcarvi le mani del loro sangue tentando di coprire, giustificare, normalizzare ciò che va respinto e condannato? Restiamo umani, per favore, in questi giorni lo hanno detto in tanti. Davvero.

 

Maria G. Di Rienzo

(da Lunanuvola's blog, 23 aprile 2011)


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