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In versi d'amore: la scelta di Francesco De Girolamo. A cura di Alivento (3)
Paul Celan
Paul Celan 
17 Agosto 2007
 

In versi d’amore giunge, con questa presentazione, al terzo articolo.

Il filone, ricordo, nasce dall’idea di invitare a discorrere d’amore i poeti contemporanei.

Il pretesto è la scelta della poesia d’amore preferita, pretesto che non maschera abbastanza il velato intento di leggere una selezione “d’alto rango”, operata cioè da chi di poesia, perché ne parla, ne vive, ne scrive, di poesia, dicevo, certamente se ne intende.

L’intervista è sviluppata col rigore dell’uniformità di richiesta: una scelta di preferenza a cui segue la libera argomentazione della scelta, e/o del rapporto tra amore e poesia, propria o d’altri o nel tempo.

Sono lieta che all’invito abbia risposto, con tutto il garbo e la competenza che gli sono proprie, Francesco De Girolamo.

Apprezzo la scelta da lui operata che, confesso, per certi aspetti mi sorprende, conoscendo Francesco come fine poeta dei sentimenti umani, capace di sviscerarli nelle più recondite pieghe e di esporli nel verso ad una luce incidente con impressionante cristallina trasparenza di sorgente e di senso, che scorrono aprendo nel pensiero del lettore altri e personali sviluppi d’idee, di ricordi, d’impressioni (come peraltro deve essere di ogni testo poetico consegnato al pubblico); mi colpisce, dicevo, che Francesco abbia scelto Celan, che di Celan abbia scelto questa poesia: un chiaro dettato d’oscuro senso; già nella possibile molteplicità di ipotesi nell’individuare quel “tu” a cui si rivolge il poeta.

Non escludo che qui avvenga il passaggio dal tu all’io alternato e scambiato, a cui, frequentemente, fa ricorso il poeta, peraltro qui scopertamente denunciato in quel verso «Io sono te, quando io sono io» nell’ambito della poesia stessa.

Una poesia che dice l’immedesimazione totale, uno specchiarsi nell’altro, nei suoi occhi, riflessi richiami trascinanti, come reti di pescatori, come fonte e radice d’essenza vitale. Rapimento e (ri)getto al suo centro, del verso, del cuore, del fulgore di un giuramento.

Il nero che incombe e la nudità di quel nero che trapassa nell’altro. Essere fedele e, ambiguamente, infedele, come si può essere solo nelle infinite possibili letture dei sentimenti, delle sfumature. L’unione che nel mare si compie dentro reti che abbracciano e rapiscono. Una spirale trascinante che mozza il respiro e mantiene la promessa. L’impiccato è per sempre strozzato dal filo invincibile di calamita, dal mistero che giace nel fondo insondabile dei suoi occhi.

Ecco una breve lettura del testo di Celan, che è anche il mio modo di penetrarne il fascino.

Tuttavia ciò che più mi colpisce del discorso di Francesco è la sua personale visione della poesia d’amore, l’enunciato che «la poesia tutta, fin dalle sue origini», ha «quasi sempre una matrice amorosa», e il disincanto della visione di Brodskij, di un poeta che «sforna» inevitabilmente un «mucchietto di liriche d’amore», attraverso le quali perviene ad una «migliore conoscenza dei propri parametri psicologici e stilistici».

È interessante in particolare l’equivalenza così suggerita tra i termini: poesia, amore, stile e vita. Da leggere.

 

Per conoscere meglio Francesco De Girolamo ecco alcuni link:

- da La lingua degli angeli e Rosso d'oriente per le sue poesie

- qui una breve biobibliografia

- per leggere alcune sue poesie commentate qui

sempre su Erodiade sono state pubblicate altre sue poesie e molte se ne trovano in altri prestigiosi siti di poesia.

 

Alivento



IN VERSI D’AMORE: LA SCELTA DI FRANCESCO DE GIROLAMO

 

 

Elogio della lontananza


Nella fonte dei tuoi occhi

vivono le reti dei pescatori del mare fatuo.

Nella fonte dei tuoi occhi

il mare mantiene la sua promessa.

 

Qui getto,

un cuore, che visse tra uomini,

le vesti da me e il fulgore di un giuramento.

 

Più nero del nero, sono più nudo.

Apostata solo sono fedele.

Io sono te, quando io sono io.

 

Nella fonte dei tuoi occhi

fluttuo e sogno rapine.

 

Una rete agganciò una rete:

ce ne andiamo abbracciati.

 

Nella fonte dei tuoi occhi

strozza un impiccato il capestro.

 

Paul Celan

(da Luce coatta e altre poesie postume, Mondadori, 1983)

 

 

Mi incanta l’oscurità di questa poesia “amorosa”. Quel “tu” ignoto, cui si rivolge Celan, origine e destinatario della sua invocazione, forse alter ego, astratta entità in ascolto dei suoi versi “strappati al silenzio”, forse ricordo della madre, morta in campo di concentramento, o obliquo frammento del canzoniere ininterrotto alla moglie Gisèle.

Tutto è talmente trasfigurato, in immagini inafferrabili, che affidano alla loro forza evocativa ogni intuibile traccia poetica di senso, in una tensione emotiva che attinge alla materia bruciante dell’eros, proprio in quanto appare crudamente raggelata, verso una facoltà espressiva quasi meta-letteraria, di indagine estrema rivolta al proprio inconscio, con straziante sforzo di un doloroso abbandono ad una fulgida, asciutta tenerezza.

Penso che la mia poesia, e la poesia tutta, fin dalle sue origini, abbia quasi sempre una matrice amorosa.

Fin dal mito di Orfeo, dalla figura della Musa, figura impalpabile che dettava i versi, ma anche voce femminile, presto, concretamente, incarnata, in una figura amata, magari neanche realmente conosciuta, dai lirici greci ai latini, al Dolce Stil Novo, per non parlare dalla commistione di eros e trasporto mistico di Santa Teresa d’Avila, San Giovanni della Croce, alla poesia barocca, (senza tralasciare le parti amorose, dei grandi poemi, spesso altissimo esempio di eros poetico, in ambito epico, allegorico, cavalleresco, eroico…), fino ai romantici, per non dimenticare Leopardi, i simbolisti francesi, i grandi poeti russi a cavallo dei tragici eventi storici del 1917, gli spagnoli del periodo della guerra civile, fino ai giorni nostri, passando per i surrealisti, gli ermetici, Pavese, Montale, e senza poter mai eludere, diacronicamente, l’inarrivabile poesia d’amore solitaria ostinata ininterrotta di Emily Dickinson, e quella consumata invece nel sudore della amata folla, comune, di fin troppo “carnale” umanità, ma in perenne, idealistica battaglia, di Walt Whitman.

Come osserva Brodskij ne “L’altra ego”: «Anche il più misogino o misantropo dei poeti sforna un mucchietto di liriche d’amore, se non altro per esercitarsi o per attestare la sua appartenenza alla corporazione. […]»

Il risultato è che da queste avventure, da una tale poesia, egli esce con una migliore conoscenza di se stesso, dei propri parametri psicologici e stilistici. Nonostante la possibile applicazione pratica, le liriche d’amore abbondano semplicemente perché sono frutto di una necessità sentimentale, spirituale.

Le questioni spirituali sono sempre, all’origine, questioni di stile. E ciò che si ottiene da una poesia d’amore non è tanto un volto della propria anima amata quanto un riflesso del proprio Io.

Come il martirio o la santità dimostrano non tanto la fondatezza di una fede, quanto il potenziale umano in fatto di fede, così la poesia d’amore testimonia della capacità dell’arte di andare oltre la realtà.”

 

Francesco De Girolamo


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