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Angelo Andreotti. “Ultima notte alla collina di Megiddo” di Simone Zanin
16 Luglio 2012
 

Quello di Simone Zanin (con 7 disegni di Gian Ruggero Manzoni, Raffaelli Editore, Rimini 2012, € 15) è un libro che si legge come vanno lette le poesie. Poco alla volta, magari sottovoce, come parlando fra sé e sé. Perché questo libro ha una sua musicalità consapevole, cercata, e finemente ottenuta. Quindi, la parvenza prosastica è soltanto apparente, addirittura fuorviante. Non lo capisci subito, come non capisci subito dove sta andando a parare, e ti potrebbe sembrare la fantasticheria visionaria del solito profeta, ma sbaglieresti perché ciò che è già sotto gli occhi di tutti non può più essere profetizzato.

Già il titolo è indicativo, per quanto portatore di possibili equivoci. Il riferimento è apocalittico, e anche le tonalità espressive lo sono. Parla della collina di Megiddo, che è quell’Armadeggon di cui parla Giovanni (Apocalisse 16,16) dove si combatte la battaglia finale tra il Bene e il Male Ma il riferimento è soltanto pretesto per richiamare l’attenzione, incanalare il lettore lungo un filone sapienziale, dare una veste narrativa (epica?) all’urgenza del dire.

E allora potresti lasciarti ingannare se tu prendessi tutto questo alla lettera, quando in realtà è soltanto crinale di una scelta, metafora di una crisi di civiltà in cui siamo chiamati a operare un cambiamento. «Più volte fummo sul punto di seguire la via ben battuta, il sentiero segnato dal tempo, dai passi di infinite persone che l’avevano attraversato. Ma tu dicesti che valeva la pena seguire nuove strade, secondo quello che dicevano i nostri cuori. Dicesti che solo attraverso i sentieri che si rinnovano sono passate le schiere degli uomini degni», e Zanin questo lo scrive già all’inizio, come già all’inizio, camuffato da un linguaggio profetizzante, compaiono i temi portanti di questo prezioso libro: il tempo, il ricordo/memoria, l’eternità, che mi pare risentano di una buona (nonché personale) lettura di Nietzsche.

Dunque tutto si svolge durante l’ultima notte prima di una battaglia finale, in cui si potrà uscire «morti e vittoriosi. Perché alla verità non potremo sopravvivere. Sopravvivere alla verità significa averla mancata». E non leggere cose così come fossero ancora il solito “vivere per la morte”: pensa piuttosto che la verità non lascia più niente come prima, e ciò che è stato per come l’avevi capito è, per l’appunto, morto. Anche tu.

La narrazione è affidata a un dialogo che, non rispettando la sua forma, volutamente confonde i protagonisti (il maestro e Jordi) l’uno con l’altro. Non può essere altrimenti: se Jordi ha bisogno del maestro per avere risposte, il maestro ha bisogno di Jordi per avere le domande, soddisfacendo pienamente la pedagogia di Agostino che riconosce al maestro e al discepolo, seppur con ruoli ovviamente differenti, la stessa dignità e importanza nel percorso conoscitivo.

Al termine dell’ultima notte il giorno non porta nessun nuovo accadimento, nessuna battaglia pare essere imminente. Eppure, nel breve assopimento di Jordi mentre montava di guardia, il maestro svegliandosi ha accolto tre vecchie donne che gli hanno parlato. Nell’Apocalisse di Giovanni (16,13) si parla di tre spiriti immondi, ma Zanin preferisce la simbologia delle Erinni, i demoni della vendetta, le rappresentanti del rimorso ridotte ad essere mendicanti poiché «Le coscienze [dell’uomo sono] sorde al nostro richiamo». E le tre Erinni portano affondi sibilanti alla supremazia dell’economia (quella classica, beninteso), del mercato, e insomma a tutta quella paccottiglia sistemica e meccanicistica che si è sovrapposta alla realtà, e all’uomo. Basta per tutte questa constatazione: «Nell’arroganza del pensiero dell’uomo è nascosta la sua schiavitù nel supporre che il meccanismo sia sempre quello ed eterno. Nel condannare l’intuizione come accidente e l’eccezione come estremo tentativo del mondo di scansare il potere. E le migliori menti di ogni generazione sono distrutte dalla follia di combattere ciò che non sia dimostrato da statistiche inesatte».

Insomma, quello di Simone Zanin è un libro da meditare (assieme ai disegni con i quali Gian Ruggero Manzoni ha scelto di accompagnare il testo), che richiederebbe una riflessione molto più ampia di quanto qui non si possa, un libro da prendere sul serio per le cose che dice ma soprattutto per come vengono dette, ed è un libro di speranza malgrado le apparenze, perché mette nuovamente in risalto il ruolo non marginale del poetico. Leggendolo mi sono tornati in mente questi due versi dalla Lettera a Ryszard Krynichi di Zbigniew Herbert: con fretta eccessiva abbiamo creduto che la bellezza non salvi/ che conduca sventati di sogno in sogno alla morte, che dovrebbero costringerci a pretendere il ritorno all'uomo.

 

Angelo Andreotti

 

 

 

Simone Zanin (foto) è nato nel 1977 a Pordenone. Ha pubblicato La porta dei miei sogni (1995, ed. del Leone, Venezia) e Studi (2007, ed. del Leone, Venezia). Ha stampato i libri d’artista, in edizione realizzata a mano in tiratura limitata e numerata, Preludio (2008, Pordenone-Milano) con l’artista Marco Baj, Ellissi Mediterranea (2010, Officine Ultranovecento, Pordenone-Faenza) con l’artista Martino Neri e Mappe per un altrove (2011, Officine Ultranovecento, selezionato per il V Festival del “llibre d’artista i de la petita edició 2012” di Barcellona). Nel 2009 è stato selezionato per il 5th “London Poetry Festival” con il poemetto Five studies for a portrait. Nel 2010 ha fondato Ultranovecento, collettivo di artisti visivi e poeti, con il quale ha realizzato progetti ed eventi in Italia e all’estero.


 
 
 
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