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Yoani Sánchez. Il calvario dei cubani per uscire dal loro paese
06 Dicembre 2010
 
A Cuba il passaporto non garantisce molto. Ottenerlo è di per sé un’odissea, per i costi e le restrizioni, averlo non assicura di poter viaggiare all’estero e ancor meno di poter tornare dopo aver vissuto anni in esilio.

 

Trentadue pagine e una copertina azzurra con lo stemma della Repubblica. Il passaporto cubano sembra più un salvacondotto che un documento d’identità, grazie a lui possiamo abbandonare l’isola, ma non ci garantisce di poter prendere un aereo.

Per ottenere il rilascio del passaporto si deve pagare una tassa in una moneta diversa da quella che si riceve come salario: “cinquantacinque pesos convertibili” che per un lavoratore medio corrispondono a tre mesi di stipendio. È un privilegio per chi possiede la moneta forte, banconote che si ottengono comportandosi in maniera opposta alle indicazioni governative.

 

Attraversare il mare

 

Adesso non è così insolito trovare un cubano munito di passaporto, mentre negli anni Settanta e Ottanta era un caso raro, perché in pochi potevano far valere le credenziali che consentivano di viaggiare. Siamo diventati un popolo immobile. I pochi che uscivano si recavano in missione ufficiale o andavano in esilio per sempre. Attraversare il mare era un premio riservato a chi aveva scalato le strutture del potere; la gran massa dei “non affidabili” non si sognava neppure di uscire dall’arcipelago. Per fortuna la situazione è cambiata negli anni Novanta, forse per l’arrivo dei turisti che ci hanno trasmesso la curiosità di quel che poteva esserci “fuori”, o per la caduta del blocco socialista che ha impedito al Governo di continuare a regalare “viaggi motivazionali” ai suo fedeli.

 

Altri orizzonti

 

Il meccanismo per uscire dall’isola si è inceppato. L’acceso alla moneta convertibile - dall’esterno tramite rimesse, lavoro per conto proprio o lavori illegali - ha contribuito a permetterci di esplorare altri orizzonti. In ogni caso possiamo viaggiare solo grazie alla solidarietà di un amico o di un parente residente in un altro paese, che finanzia i costi proibitivi.

Se dipendesse dalle nostre tasche saremmo in pochi a prendere un aereo. Viaggiare non è più una prerogativa degli eletti, ma il Governo conserva un filtro ideologico per l’entrata e l’uscita dal territorio nazionale. Per noi che viviamo a Cuba la catena si chiama “permesso di uscita”, un salvacondotto che viene concesso solo dopo una severa valutazione politica.

Coloro che sono emigrati devono sottoporsi a un procedimento simile che culmina con l’autorizzazione o meno a entrare come turisti nella loro patria. Entrambe le concessioni dipendono da un’istituzione militare che non fornisce spiegazioni. Per questo negli uffici dove si richiede la cosiddetta “tessera bianca” o nei consolati dove i nostri esiliati devono richiedere l’approvazione d’ingresso, drammi umani e arbitrarietà sono all’ordine del giorno.

 

Famiglie divise

 

I critici che appartengono a un gruppo di opposizione o i giornalisti indipendenti, raramente ottengono un permesso di viaggio. Un altro settore molto controllato è quello dei lavoratori della salute, che per uscire necessitano di una licenza ministeriale. La situazione assume aspetti drammatici tra gli emigrati che dopo decenni di esilio non possono rientrare per far visita alla loro famiglia: muoiono lontani, senza tornare a baciare la fronte della madre che hanno lasciato in patria o a guardare per l’ultima volta la casa dove sono nati.

Un partito si è attribuito il potere di regolare il nostro flusso migratorio, come se Cuba non fosse casa, patria, rifugio, ma carcere. Per coloro che ottengono il permesso di viaggio continua il calvario: arrivare a un aeroporto ed esibire un passaporto che viene guardato con sospetto; la quantità di cubani che restano illegalmente in ogni angolo del globo ci fa inserire nell’elenco di coloro ai quali non si rilascia volentieri un visto.

Per questo quando riescono a stabilirsi all’estero e a prendere la nazionalità di un altro paese, i miei compatrioti tirano un sospiro di sollievo perché possono contare su un altro documento d’identità capace di restituire un senso di appartenenza a un determinato luogo. Alcune pagine, una copertina foderata e lo stemma di un’altra nazione possono fare la differenza. Mentre quel librettino azzurrato dove sta scritto che sono nati a Cuba resta nascosto in un cassetto, in attesa che un giorno diventi motivo di orgoglio e non di vergogna.

 

Yoani Sánchez

(da El Comercio, Perù, 5 dicembre 2010)

Traduzione di Gordiano Lupi


 
 
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