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Leo Felipe Campos. Impressioni avanere di uno straniero alla deriva  
Dalla rivista clandestina cubana “VOCES”, n. 2 – settembre 2010
01 Ottobre 2010
 

A JJ e al buon Adín

 

La musica è intermittente come le intemperie quando spunta il sole, cosa che accade quasi sempre durante i nove giorni che passeggio per alcune zone dell'Avana.

Il suo lungomare completo, le sue strade 17, 21 e 23; la sua G e la sua J; la sua O e le sue strade con nomi nobili e le persone appoggiate alle ringhiere dei loro balconi. San Lázaro, Infanta, biciclette e taxi al loro posto.

Il suo centro e la parte vecchia, più fatiscente e turistica. Il suo Marianao in due autobus doppi, autobus con ventre di fisarmonica e molta gente che conversa. Il suo Parque Central dalla tipica struttura con José Martí ancora una volta al centro; lo splendore smarrito nei sogni che si sono sciolti con la fame, le ingiustizie e il tempo.

L'Avana ha lo splendore dell'ossido e il sorriso salato. Si può fumare ovunque e ciascuno trova l'ombra.

Quando passa una coppia di stranieri, che si moltiplicano come mosche, gli occhi dei cubani sembrano navigare da un lato all'altro, costantemente, e allora penso che tutti sono stati marinai, o che un giorno lo saranno.

È la città che osserva perduta l'orizzonte con la mente immersa nei ricordi, si muove e si muove bene, con tante esistenze, balla lentamente fino a quando non arriva il silenzio e si ferma.

L'Avana è così, non è una domanda, ma una disperazione, un impeto, una monelleria che bagna i suoi costumi nella trasparenza del rum bianco, mentre vive il suo oblio con un sottofondo di rumore d'onde.

Se L'Avana non ha denaro perché glielo hanno tolto con la forza, la dignità dei suoi abitanti e la resistenza delle sue pietre e le sue braccia enormi, vecchie e fibrose, realizzano la possibilità di una contraddizione che impressiona: L'allegria triste.

Per esempio, la città si arrende alla cotoletta di maiale tra due fette di pane, e al pesce che avvolge una fetta di prosciutto e un'altra di formaggio, ma ha da tempo dimenticato la bistecca di manzo, forse per il timore di perdere il latte, perché a Cuba, secondo quanto mi dicono, uno dei successi rivoluzionari è che viene garantita una porzione di latte a tutti i bambini fino a sette anni.

L'Avana parla di ciò che è stato e di quel che potrebbe essere, ma poche volte di quel che è, il suo sorriso è un'eloquente fuga dalla realtà, la sua calma è ben nota. Si consegna con rassegnazione e stoicismo al luogo comune che i turisti le riservano, la rivendicazione dell'originale come un'arma sotto forma di cartolina:

Un fresco-notte di ristorantini biondo-Europa con flash fotografici nella casa di un nero pieno di braccialetti, uomo amabile, al punto di divorare in una seduta ciò che la maggioranza dei suoi cittadini sogna da alcuni decenni, tutte cose che non si misurano con gli anni ma con la fede. Bisogna aggiungere che in questo luogo i padroni di casa mangiano in piedi.

In uno stellare incontro di box dell'immaginario mondiale, che non finisce mai, L'Avana gioca il ruolo dell'intelligenza provocatrice, la posizione del David senza pietre, la palma della mano aperta e senza guanto per dire allo straniero: qui manca soltanto un poco di quel che ti avanza, ma noi, nessuno deve dubitarlo, lo otterremo.

In questo luogo ho visto migliaia di persone, ma ne ho conosciute poche. Tutte quelle con cui ho parlato per più di due o tre ore consecutive, o per il tempo di quattro o cinque giorni, hanno la virtù tatuata, sono rispettosi e affascinanti, molto intelligenti. La strada è conquistata dalla gente ma loro non sembrano rendersene conto, se ne vanno in lungo e in largo, risolvendo come possono i problemi del quotidiano.

L'Avana, più sicura delle altre capitali che ho conosciuto nel resto del continente, è un caleidoscopio di sostantivi che si scontrano, un lampo necessario di risposte impossibili. È il caldo sorprendente, il passato che non passa mai, la solitudine che regala la fama, e la rovina, o le macerie. È un lamento cantato con passione.

Uno splendido vestito inondato di luce che mette in mostra le cuciture.

Non ho ancora avuto il tempo di vederla con il petto scoperto, lasciando cadere le sue vesti a terra, e neppure ho cercato di farlo, ma sono rimasto sempre a guardarla con attenzione, il più vicino possibile, e adesso che ci penso sono sicuro di una cosa: avrei preferito incontrarla nuda.

 

Leo Felipe Campos

(da VOCES – n. 2 del settembre 2010)

Traduzione di Gordiano Lupi

 

Originale dell'articolo nelle immagini allegate


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