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“Sono avanero di nascita e di cuore”. Yoani Sánchez intervista Juan Juan Almeida (1ª parte)
12 Aprile 2010
 

Sei una figura di rilevanza pubblica, perché sei il figlio di una delle icone storiche della rivoluzione cubana, il comandante Juan Almeida Bosque. Cosa significa per te questa circostanza? Ti sei approfittato della tua posizione? Si è trasformata in un ostacolo?

Figura? Rilevanza? Io? Ti racconto una cosa, una mattina un generale mi elogiò dicendomi con reverenza che io ero il figlio prediletto di mio padre comandante, e alcuni anni dopo quello stesso generale mi cacciò via quasi a pedate dal funerale di mio padre. Vedi, l’esistenza è quel che conta, ciò che hai chiamato “circostanza”, per me è la vita intera. È nel mio sangue, nei miei geni, nel mio nome. Non potrei, né voglio, rinunciare a quel che sono. Mio padre non è mai stato un ostacolo. Non penso molto a quel che dico, ma dico sempre ciò che penso, l’ho già detto, l’ho pensato, lo riaffermo: se per caso dovessi rinascere, non vorrei un padre diverso dal mio. Dire che mi sono approfittato di lui, della sua carica, del suo potere, scusami, è una cosa molto relativa. Mio padre ha avuto nove figli, siamo nove fratelli… perché hai intervistato proprio me? Non credo perché sono figlio del Comandante.

 

Voglio concludere con questa domanda il tema di tuo padre e passare a parlare di te. Nell’immaginario popolare il comandante Juan Almeida era un uomo del popolo, allegro, semplice e sincero. Non gli vengono attribuiti eccessi né abusi di potere. Sei d’accordo con questo ritratto? Com’era il Comandante all’interno della sua famiglia?

Immaginario popolare? Caspita, Yoani, che parole usi! Senti, diciamo che in qualche modo concordo con questa visione se semplice significa non essere una persona complicata. Più che dire del popolo, direi che è stato cubano, molto cubano e molto umano. Il giorno che andai all’obitorio mi avvicinai e lo baciai, stava sopra una barella, serio, freddo, quello non era mio padre. E anche se per un figlio è difficile essere obiettivo, oggi ti potrei dire che il sorriso di mio padre era una cosa incredibile, affascinante, il più bello del mondo. Ricordo che quando ero piccolo mi piaceva accarezzare le cicatrici che le battaglie avevano lasciato sul suo corpo. Lui mi guardava e mi raccontava orgoglioso e sorridente che alcune gliele avevano inflitte in un luogo, altre in un altro posto, altre ancora a El Uvero… Alla fine posso dire di conoscere ogni centimetro del corpo di mio padre, un uomo molto tenero che paradossalmente morì senza aver mai detto Ti voglio bene. Forse per questo motivo si rifugiò nelle sue canzoni e per me ne compose una intitolata Voglio essere un marinaio, e ogni volta che l’ascolto provo una ferita al cuore. Mio padre è stato ciò che pure io un giorno vorrei essere: Unico. Ma cambiamo argomento, parlare di mio padre mi fa diventare sentimentale e provoca sofferenza.

 

Dalla lettura del tuo libro - Memorie di un guerrigliero sconosciuto - e di altre testimonianze di persone vicine a te, viene fuori il tuo lato irrequieto. Alunno indesiderabile in diverse scuole, pessimo agente della Sicurezza di Stato, impresario fallito e bohémien senza speranza di redenzione. Se tu fossi obbligato a parlare bene di te cosa diresti?

Se fossi stato un buon agente della Sicurezza di Stato, sicuramente adesso mi criticheresti. Se fossi stato un perfetto imprenditore mi prenderesti in giro o mi invidieresti. Se non fossi un bohémien, non conoscerei la poesia e questa intervista sarebbe una noiosa porcheria carica di elogio e di pedanteria. Hai visto? Ho fatto la rima. Poco fa mi hai definito figura rilevante, adesso irrequieto e indesiderabile. Cazzo, ragazza, sei uguale al Generale. Ascolta, sai chi sono? Sono Juan Juan, e, tra parentesi, mi piace pronunciare il mio nome. Sono avanero di nascita e di cuore. Quando ero piccolino qualcuno sempre mormorava: “È arrivato il figlio del Comandante Almeida”. Dopo, quando mia figlia era piccola e, insieme a sua madre, la portavamo a scuola, i suoi amichetti dicevano: “È arrivato il padre di Indira”. Come vedi, amica mia, così come sono il figlio di mio padre, sono il padre di mia figlia. Infatti, questo sono: il padre di Indira, il marito di Consuelo, il figlio di Púbila García, il figlio di Juan Almeida, il fratello dei miei fratelli, l’amico dei miei amici… Sono un tipo dalle mille sfaccettature, che ama vivere la vita, a differenza di molti non sogno con l’idea di essere un uomo intelligente, non sono vittima, non sono eroe, non pretendo di essere un leader e neppure un esempio, non appartengo a gruppi o partiti. Sono soltanto un essere umano pieno di difetti e sono stufo di tanta gente che vorrebbe raddrizzare il mondo che già di per sé non è rotondo. Credo che un buon disordine sia una cosa fantastica.

 

Nella tua giovinezza, visto che provenivi da una famiglia come la tua, hai avuto rapporti con quel gruppo di ragazzi chiamati popolarmente i figli di papà? Sei ancora amico con qualcuno di loro? Cos’è stato di quella pleiade?

Davvero non suonerebbe meglio chiedermi cos’è stato del mio gruppo di amici? Va bene, è lo stesso, se ti piace la parola pleiade, useremo quella. Non faccio i loro nomi, ma i miei amici, come tutti gli amici, sono andati chi da una parte, chi da un’altra. Prima parlavo molto con loro, ci vedevamo spesso. Ma dopo aver sofferto tante persecuzioni, inseguimenti, arresti, interrogatori, emarginazioni, esclusioni, uno deve imparare a vivere con il suo presente. Non vedo perché dovrei far del male e contagiare, soprattutto non voglio convincere nessuno. Mi sono separato dai miei amici e persino da alcuni familiari per proteggerli, avrei sbagliato a non farlo. Ti voglio dire un’altra cosa: il giorno che mi espulsero dal funerale di mio padre, subito dopo tutta la mia famiglia se ne andò da quel luogo, tutti si allontanarono da Piazza della Rivoluzione. Ascolta bene: Tutti, Piazza della Rivoluzione. Non è facile. Io me ne tornai a casa, mi chiusi dentro e mi misi a piangere da solo. E sai cosa mi aiutò? Le moltissime telefonate, i tantissimi sms di amici che, come te, sanno che il mio telefono ha sempre dei problemi. Ah, e oltre seimila e-mail. Non sono un angelo, te l’ho detto, però tutto questo mi sembra sufficiente per credere che non sono così cattivo come potrei sembrare. Ti ho detto che da moltissimo tempo ho tolto dal mio dizionario le parole nemico, vittoria, sconfitta, e siccome fa rima con combattimento (combate) ho eliminato anche dibattito (debate)? La sofferenza mi distrugge, il potere uguale. Li conosco, li ho visti sin da bambino, l’uno va con l’altro. Chi preferisce il potere, deve sempre aver chiara quella definizione, nel senso più stretto, per non commettere atti illeciti, né soddisfare interessi personali di chi lo esercita abusando di autorità e operando senza rispettare leggi, risoluzioni o costituzioni. Io non voglio quel potere, preferisco sorridere tranquillo. Certo, e per terminare, questa dei figli di papà è una delle tante frasi che servono solo a dividere, e anche se ti sembrerà una barzelletta, è abbastanza discriminatoria e limitante per quella stessa pleiade che definisci i figli di papà. Non c’è niente di assoluto, la mela non si vede allo stesso modo se si guarda dal cielo invece che dal suolo.

 

Il tuo dramma attuale è che sei una persona malata che avrebbe bisogno di essere curata all’estero, dove risiede il resto della tua famiglia, e invece non ti permettono di uscire dal paese. Quali sono le ragioni che ti hanno esposto per negarti il permesso di uscita? Quali credi che siano i motivi reali? Cosa dovresti fare o cosa dovrebbe succedere perché tu possa salire su un aereo e a uscire da Cuba? Ritorneresti a vivere nel tuo paese se riuscissi ad andartene?

Prima di tutto mettiamo le cose nel loro contesto: ho una vita, non un dramma. Sono nato con una malattia che irrimediabilmente mi farà perdere la mobilità delle articolazioni, non mi piace parlare di questo argomento, detesto fare la vittima. Negli anni Ottanta la mia sofferenza cominciò con dolori irresistibili e periodi di invalidità. Sono stato curato dai più conosciuti specialisti cubani senza che fosse trovata alcuna soluzione, una sera mi chiamarono dall’ufficio di mio padre perché il Ministro Raúl Castro aveva fatto venire alcuni medici coreani perché - tra molte altre cose - tentassero di risolvere anche il mio caso. Mi fecero diverse sessioni di agopuntura e altre tecniche, ma neppure loro riuscirono a guarirmi. Domandalo a Raúl, lui deve ricordare tutto. Fu quando - su decisione di una commissione del Ministero degli Interni e del Ministero della Salute Pubblica - la mia cartella clinica venne inviata a un congresso internazionale. Ho cominciato a viaggiare alla volta di Bruxelles per vedere il mio dottore e per un certo periodo le cose sono andate bene, ma poi tutto è tornato al punto di partenza. Non so i motivi. Ho ricevuto minacce, persecuzioni, un sacco di cose strane, ma nessuna spiegazione. Perché non mi lasciano uscire da Cuba? Non ne ho la più pallida idea. Non accetto la leggenda che l’ha ordinato mio padre perché ho un sacco di testimoni che possono distruggere questa ipotesi. Non ci sono dubbi: è un capriccio di chi può letteralmente calpestare la nostra Costituzione, far dimenticare il giuramento di Ippocrate al Ministero della Salute, zittire le più alte direzioni del Ministero degli Interni e il Presidente dell’Assemblea Nazionale. Chi possiede tanto potere? Raúl Castro. Soltanto lui può mi può liquidare, farmi soffrire di dolore, tenermi senza la minima benevolenza separato da mia figlia, da mia moglie, dalla mia famiglia. Soltanto lui mi può chiudere in una cella o in una casa segreta. Ma questa fermezza orgogliosa strozzerà il suo prestigio perché tutti vedono e si chiedono: perché il Presidente del Consiglio di Stato e dei Ministri della Repubblica di Cuba, si ostina a rompere le palle a un tonto come me? La risposta non la conosco, forse potrebbe essere la superbia. Se tornerei a Cuba? Ti risponderò come ho detto a un colonnello che mi ha intervistato: il mio interesse è ritornare, questo l’ho già ripetuto, ma prima devo uscire. È chiaro che se esco illegale, ritorno illegale.

 

Circola una versione che hai fatto almeno un tentativo per uscire illegalmente dal paese. L’incomprensibile è che, secondo quanto si dice, sei stato sorpreso in un autobus. Puoi essere più esplicito?

Sì, ma prima devo chiarire che sono stati due i tentativi di uscire illegalmente dal paese, anzi quasi tre. Il primo andò male perché la zattera affondò vicino alla riva, ho almeno due amici che possono confermare. Il secondo fu il caso che molti conoscono: una sera mi dissero che se volevo andarmene illegalmente mi sarei dovuto presentare vestito di bianco, alle sette della mattina, nella caffetteria all’entrata del parco Lenin alla periferia della capitale. Questo feci il 6 maggio del 2009 per pura disperazione. Ho già detto di aver scritto lettere, di aver supplicato, di essere stato indagato, ma sono stato sempre ignorato. Non mi restava altro rimedio che l’uscita illegale. Tutto questo fa parte di una vecchia e triste storia che a volte pare persino usurata: sogni, pianti, frustrazioni, famiglie separate… sopra quell’autobus eravamo oltre sessanta persone. Alcuni dissero che Dio ci aveva abbandonato, e altri, che semplicemente ci aveva salvato dalla morte in alto mare. Il caso fu che alle nove della notte, per fortuna o per disgrazia, non so, dopo ore di cammino, la polizia intercettò l’autobus nel punto di controllo stradale della città di Manzanillo. Ci portarono in una stazione di polizia, ci tolsero i documenti d’identità e i telefoni cellulari, ci fecero una ramanzina in un teatro e dopo ci divisero in gruppi. Io fui inserito tra coloro che pernottarono in quella stazione. Ci misero nelle celle, e in quel luogo, gettati chi da una parte chi dall’altra, passammo insieme la prima notte. Il giorno successivo, molto presto, dopo aver fatto colazione, ci tolsero gli effetti personali, ci presero le impronte digitali, registrarono le nostre dichiarazioni e ci chiusero nelle stesse celle che prima erano aperte e che adesso non avrebbe senso descrivere. In quel tempo mi resi conto che alcuni dei miei compagni di viaggio avevano tentato di uscire dal paese illegalmente in molte occasioni e conoscevano a menadito il procedimento di polizia. Dopo un po’ ci restituirono gli effetti personali meno i cellulari e i documenti di identità, ci offrirono il pranzo e ci fecero salire nello stesso autobus, filmandoci mentre montavamo, per portarci alla delegazione del Ministero degli Interni di Bayamo. Ma immaginati tu, un autobus con oltre sessanta passeggeri che avevano tentato di uscire illegalmente da Cuba era una notizia troppo curiosa e correva veloce per le strade di Manzanillo, forse per questo molta gente di quel paese si fermò sui marciapiedi per guardarci passare. Al principio pensai che ci avrebbero tirato pietre o cose simili, ma non successe niente di tutto questo, la popolazione riunita si mostrava solidale. Fu una cosa commovente. Arrivammo a Bayamo, fummo interrogati, trasferiti all’Avana, le nostre case vennero perquisite, una vera atrocità… Alla fine, dopo diversi giorni, sono uscito da quell’incubo con un cappuccio in testa e una misura cautelare che ancora oggi mi obbliga ad andare a firmare a Villa Marista. L’ho già detto molte volte, non voglio andare a firmare, voglio un giudizio, un giudizio per accertare la mia stessa colpevolezza, ma dove risulti altrettanto chiara la colpa di chi non ha mai risposto alle mie lettere e mi ha lasciato in un limbo legale, obbligandomi a scegliere una soluzione illegale. Pochi sanno che esiste un quasi terzo tentativo di uscita illegale, quest’ultimo l’ho annunciato personalmente a Villa Marista, dicendo che avrei convocato la stampa nazionale e internazionale proprio mentre mi sarei allontanato dal Malecón a bordo di una zattera. Prima lo avrei comunicato alla stampa di Miami perché qualcuno, una barca, un poliziotto, una scialuppa, non so, mi aspettasse in acque internazionali. Ho il visto. Non smetterò mai di chiedere e di provare a uscire, legalmente o illegalmente m’interessa poco, devo andare dal medico, abbracciare la mia famiglia e ritornare a Cuba, perché nessuno, assolutamente nessuno può calpestare i miei diritti.

 

(Fine 1ª parte)

Yoani Sánchez

Traduzione di Gordiano Lupi


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