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Paola Barbato. Mani nude. Alberto Figlioia intervista la sceneggiatrice di Dylan Dog
11 Settembre 2008
 

Combattimenti all'ultimo sangue. Clandestini. Fra esseri umani, se umanità esiste ancora o ne permangano, invece, indecifrabili brandelli e rimasugli. Vince chi sopravvive. Mani nude (Rizzoli, pp. 429, € 19) di Paola Barbato è un romanzo di crudele, ardua e lucidissima materia, metafora e parafrasi della violenza che permea di sé il mondo e la natura umana. La Barbato, alla sua seconda opera narrativa (Bilico, la precedente), è assai nota per essere una delle sceneggiatrici del fumetto di culto Dylan Dog. È, il suo, un talento cristallino, la scrittura uno scintillante diamante che taglia con perfezione, raffinatezza e, anche, spietatezza.

Possiamo intendere Mani nude come un'amara parabola relativa alla società in cui viviamo?

«Non intenzionalmente. Quando ho cominciato a scrivere questo romanzo volevo solo raccontare una storia, però, man mano che andavo avanti, mi accorgevo che stavo rendendo dei parallelismi con moltissime situazioni visibili alla luce del sole nella nostra società. E in effetti io da sempre dico di scrivere solo di ciò che conosco».

Si è detto, provocatoriamente, che il tuo è un romanzo sovversivo. Che cosa pensi o dici al riguardo?

«Sovversivo, addirittura! No, non sovverto nulla. Mostro certe cose per come stanno. L'utilizzo dell'ambientazione estrema nel mondo delle lotte clandestine è stato fortemente voluto proprio perché il piano morale venisse azzerato. Il lettore, se vuole esprimere giudizi, lo deve fare sull'essenza delle cose, perché non esistono, in questo romanzo, “buoni” o “cattivi”. Premettendo pure che tutti siano “cattivi”, non si può che giudicarli umanamente. E questo è un discorso completamente diverso, forse più scomodo».

Possono davvero esistere situazioni come quelle da te descritte in Mani nude?

«Io so che esistono. Non ho avuto nessun insider, ma ho avuto contatti con persone che in questo mondo ci sono entrati, da una parte o dall'altra. I gladiatori moderni ci sono eccome. Magari non così bene organizzati come nella mia storia».

Una storia cruda e dura da cui l'innocenza del mondo è bandita...

«Perché? Il mondo sarebbe innocente?»

Un universo claustrofobico, di luci artificiali e artificioso, privo di speranza...

«No, la speranza c'è, solo che è una speranza diversa da quella che siamo abituati a conoscere e a proclamare “giusta”. La speranza in una sopravvivenza, in un domani, in un respiro ancora, ha una dignità fortissima. E i rapporti di affetto che s'instaurano, nonostante le circostanze non possano essere più sfavorevoli, ne sono la prova».

Quanto tempo hai impiegato a scrivere Mani nude e qual è il tuo metodo di lavoro?

«Ho iniziato il romanzo un paio di mesi dopo aver partorito e l'ho terminato circa dieci mesi dopo. Ma i tempi sono stati fortemente dilatati dal fatto di avere una bambina piccolissima, che allattavo personalmente, e una salute claudicante. Di solito la mia scrittura è veloce. E non ho metodi: accendo il computer, scrivo e basta».

Nella scrittura quanto incide la cosiddetta ispirazione o contano maggiormente studio e lavoro a tavolino?

«Se non c'è l'idea, il guizzo, quel qualcosa che ti intriga e che insegui per tutto il romanzo allora tanto vale non iniziare nemmeno (oppure cambiare mestiere). A tavolino mi limito a correggere le bozze, non so scalettare, al massimo prendo appunti alla rinfusa, che spesso finisco pure col non consultare».

Un mestiere duro quello dello scrivere?

«Per me non è mai stato un mestiere, lo facevo anche senza guadagnarci. Per me è la massima espressione di me stessa. Ed è una gioia immensa».

Tu sei un'affermata sceneggiatrice scrivendo le storie del fumetto di culto Dylan Dog. Qual è la differenza fra quel genere di scrittura e la letteratura cui sei approdata o da cui sei partita?

«Sono due cose molto diverse. Il parallelo che faccio sempre è quello tra jogging e arti marziali. Scrivere fumetti significa imparare una tecnica rigidissima, regole imprescindibili, disciplina, rigore, senso del ritmo della narrazione, sapienza nella scansione degli eventi, coerenza nel comportamento dei personaggi. È necessario saper visualizzare, controllare i movimenti di camera, introdurre ogni elemento con tempismo preciso. Chi sottovaluta i fumetti non sa cosa significhi quest'arte. La scrittura libera invece è diversa per ogni autore e, come tale, nasconde solo l'insidia di sfuggire di mano. Oltre, ovviamente, a coinvolgerlo a livelli maggiori».

Prima che diventassi famosa con Dylan Dog come si comportavano gli editori nei confronti dei tuoi lavori?

«Beh, prima avevo solo proposto una raccolta di racconti a metà editori d'Italia e tutti avevano risposto: Bellissimi, ma non rientrano nelle nostre linee editoriali. In compenso proprio quei racconti, letti dall'editor di Dylan Dog, Mauro Marcheselli, a cui devo tutto, mi hanno spalancato le porte del fumetto».

Tornando a Dylan Dog, quanto ci metti di tuo nel personaggio le cui storie contribuisci a creare o quanto di lui è passato o passa in te?

«Di lui in me non passa nulla, sono impermeabile quasi a tutte le influenze. Di me in lui metto il giusto, quei pochi punti caratteriali che abbiamo in comune. Per il resto cerco di rispettare il suo carattere. E lui il mio».

Perché ha tanto successo un eroe di carta? E qual è il suo pubblico d'elezione?

«Tiziano Sclavi non ha creato un personaggio, ma una persona. Dylan è un antieroe, estremamente umano, ha accorciato tantissimo le distanze con il lettore, e questa è la sua carta vincente. Nessuno, leggendo le sue avventure, pensa che non sarebbe mai in grado di fare quello che fa lui, visto che ha mille fobie, fisime, dubbi e debolezze. Il pubblico è eterogeneo: chi lo legge da vent'anni come me si aggira intorno alla quarantina, e mi risulta che una consistente frotta di adolescenti sia altrettanto appassionata. Così come Dylan, anche il suo pubblico non ha età”.

Quali sono i problemi dell'editoria e dell'industria culturale del nostro Paese?

Ne so poco e non credo che ci siano problemi dalle proporzioni apocalittiche di cui si parla. C'è un'iperproduzione di scritti, e ormai pubblica chiunque, ma l'eccessiva offerta non credo sia un male. Però, devo dire la verità, non mi sono mai posta molto questi problemi,. Ho sempre letto, frequento persone che leggono e non mi sembra che negli ultimi vent'anni qualcuno di noi abbia smesso per problemi legati all'industria culturale o a qualsiasi altra cosa attinente».

Si sa che sei molto impegnata nel volontariato. Vuoi dire qualcosa in merito?

«Non mi piace parlare di me, piuttosto dell'Associazione Mauro Emolo Onlus, che si occupa della ricerca e delle famiglie colpite da Corea di Huntington, una malattia genetica neurodegenerativa ereditaria che nell'arco di vent'anni uccide le cellule del cervello. I pazienti perdono le funzioni legate a quelle cellule, e così perdono il coordinamento, la deglutizione, il sonno, la parola. Un'agonia di venti-venticinque finché il corpo, troppo debole, non soccomberà a qualche altra malattia. Sul sito www.coreadihuntington.it ci sono le notizie necessarie e tutti i modi per cercare di aiutare queste persone».

 

Alberto Figliolia


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