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Gianfranco Spadaccia. Quale riforma della giustizia
14 Marzo 2011
 

Ci sono diversi aspetti della crisi della Giustizia che, strettamente connessi tra loro, vanno tuttavia tenuti distinti per parlare di una sua possibile riforma: di qualsiasi ipotesi di riforma e, a maggior ragione, di quella che è stata elaborata dal Governo Berlusconi.

Il primo aspetto è quello della riforma dell’ordinamento (separazione delle carriere fra pubblica accusa e magistratura giudicante, responsabilità civile dei magistrati, eventuale riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e del suo sistema di elezione, eventuali norme che regolino la scelta delle priorità nell’esercizio dell’azione penale, eventuali interventi sul sistema delle impugnazioni) ed è lo stesso sul quale si accentrano le attenzioni e le preoccupazioni dell’attuale Governo.

C’è poi l’altro aspetto consistente nell’impianto complessivo del nostro diritto penale, caratterizzato dalla sopravvivenza dopo il fascismo del Codice Rocco: un codice autoritario, coerente con i principi ispiratori di uno Stato totalitario, che era tuttavia concepito con forte rigore giuridico dalla dottrina di un grande giurista. In oltre sessanta anni di storia repubblicana nessun governo e nessuna maggioranza è stato in grado di riformarlo. Fra gli ultimi ad averci provato Pisapia padre e figlio per il centrosinistra e il giudice Carlo Nordio per il centrodestra. Quel codice, per altro, regolava il diritto penale di una società prevalentemente agraria, che ha subito una profonda trasformazione industriale e urbana nei primi due decenni del dopoguerra. Mutarono di conseguenza anche i problemi della sicurezza e la gerarchia dei beni e degli interessi da tutelare penalmente. Per far fronte a questi mutamenti, il Parlamento e le sue maggioranze sono di volta in volta ricorsi a una produzione novellistica, fatta di leggi e leggine di scadente qualità giuridica e normativa, di norme speciali e poteri straordinari, che travolgevano la logica complessiva del Codice Rocco.

Di intervenire su questo impianto normativo, che va riformato con la riforma del Codice, con una vasta azione di depenalizzazione e con l’introduzione di pene alternative al carcere come avviene in tutti gli altri paesi europei, la maggioranza berlusconiana neppure ci pensa così come si guarda bene dal prendere in considerazione qualsiasi ipotesi di amnistia, condizione necessaria anche se non sufficiente per porre termine alla vergogna incivile della nostra situazione penitenziaria, eliminare l’enorme arretrato e consentire una diversa programmazione e riorganizzazione del lavoro giudiziario. L’unico garantismo che sta a cuore a questa maggioranza è quello che salvaguarda gli uomini della e delle caste, i ricchi, i potenti, i colletti bianchi e naturalmente in primo luogo Berlusconi. Gli altri possono pure morire di carcere. Mai come oggi La Giustizia è stata così chiaramente e scandalosamente una Giustizia di classe.

Negli anni ’80 e ’90, non esistendo le condizioni di uno schieramento parlamentare a favore di una riforma complessiva del diritto penale, riuscimmo ad influenzare il parlamento a favore di una significativa riforma penitenziaria e mettemmo in atto una serie di iniziative referendarie. Insieme a socialisti e a liberali, negli anni ’80 raccogliemmo le firme per un referendum sul sistema di elezione del CSM (l’intenzione era quella di passare dal sistema proporzionale, che favoriva la formazione delle correnti trasformandole in organismi permanenti di potere con logiche assai simili a quelle partitocratiche, a un sistema di tipo uninominale). Un altro referendum estendeva la responsabilità civile dei magistrati anche alla colpa oltre che al dolo. Il primo fu bocciato dalla Corte Costituzionale, il secondo giunse al voto e fu approvato dalla grande maggioranza degli elettori. Purtroppo Bettino Craxi e il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, preoccupati (soprattutto il primo) di evitare scontri diretti con l’Associazione Nazionale dei Magistrati, vanificarono con una legge di attuazione quel voto popolare. Negli anni ’90 raccogliemmo le firme sul referendum che avrebbe introdotto la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati giudicanti. Anch’esso ottenne una grande maggioranza. Peccato che non raggiunse il quorum per la campagna astensionista condotta in prima persona proprio da Berlusconi contro i “referendum comunisti”.

Non c’è alcun dubbio che almeno alcuni dei mutamenti proposti dalla riforma Alfano (separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati) facciano parte del nostro bagaglio programmatico e dei nostri obiettivi riformatori, anzi sono entrati nel dibattito politico proprio grazie alle nostre lotte. Qualche dubbio invece potrebbe riguardare la scelta di procedere attraverso una revisione costituzionale dal momento che almeno queste due riforme sembravano perfettamente compatibili con la costituzione vigente e quindi realizzabili per legge ordinaria. Diverso il discorso per la questione riguardante l’obbligatorietà dell’azione penale, che è espressamente prevista dalla Costituzione. Anche su questo i radicali sono stati i primi a squarciare il velo dell’ipocrisia che circondava questa norma costituzionale: poiché è praticamente impossibile attivare l’azione penale per tutte le notitiae criminis, la pretesa obbligatorietà investe l’ufficio del Pubblico Ministero di una discrezionalità praticamente assoluta e incontrollata sulle inchieste da aprire e le ipotesi di reato da perseguire.

Naturalmente è profondamente mutato il contesto nel quale si inseriscono oggi queste proposte di riforma rispetto a quello nel quale si sviluppavano le nostre lotte negli anni ’80 e ’90. Allora le leggi speciali contro il terrorismo e contro la criminalità organizzata, la legge sul pentitismo, le modifiche introdotte nella durata di quella che prima si chiamava carcerazione preventiva ed ora custodia cautelare avevano concentrato un enorme potere nelle mani delle Procure, spostando nettamente a favore di queste ultime gli equilibri interni alla magistratura. Basta pensare ai due casi emblematici del Processo 7 aprile e del caso Tortora, che ci videro protagonisti di diretti e duri scontri politici anche condotti con le candidature di Toni Negri alle elezioni politiche del 1983 e dello stesso Tortora alle europee del 1984. Allora la carcerazione preventiva poteva per determinati reati arrivare a cinque anni. Una incriminazione equivaleva in quei casi in pratica a una vera e propria forma di giustizia sommaria. Emilio Vesce, uno degli imputati del processo 7 aprile, che divenne poi deputato radicale, si fece cinque anni di carcere preventivo per essere infine assolto dai reati che gli erano stati contestati dal Procuratore di Padova Calogero. Poi questi poteri e questi metodi si estesero a Mani Pulite, una campagna di inchieste giudiziarie ampiamente giustificata dalla corruzione di cui la politica si era resa responsabile ma che fu fortemente inquinata dall’uso spregiudicato che si fece proprio della discrezionalità dell’azione penale e della carcerazione preventiva. La chiamata di correità che Craxi aveva fatto nei confronti degli altri partiti rimase senza seguito anche se sarebbe bastato indagare sui criteri di rigorosa lottizzazione che avevano presieduto nel decennio precedente alla assegnazione degli appalti pubblici e che avevano coinvolto i diversi settori del mondo industriale e cooperativo e l’intero schieramento partitico (esclusi ancora una volta i soli radicali). Questo uso spregiudicato e parziale della giustizia ebbe profonde influenze sugli assetti politici della Repubblica, punì alcuni (il PSI, i partiti laici, una parte della DC) e preservò altri (postcomunisti e una parte della DC) ma non favorì in alcun modo la riforma e la moralizzazione della politica. L’ondata giustizialista che si è sempre considerata sufficiente a sé stessa, lungi dal concorrere alla riconquista della legalità ha finito per creare due aree contrapposte di illegalità, quella di una politica non riformata e quella di una giustizia priva di limiti e di controlli.

La mancanza di capacità e volontà riformatrici ha creato un vuoto che è stato riempito da Berlusconi e dalla sua discesa in campo. È cominciata da allora la lunga stagione di una transizione infinita che invece di preludere a una Riforma ha impantanato la politica e le istituzioni in tante piccole e mediocri controriforme. Alle lottizzazioni, alla corruzione, al rapporto incestuoso fra economia e politica, al finanziamento illecito dei partiti che caratterizzavano la cosiddetta Prima Repubblica è seguita la creazione di sacche di illegalità sempre più diffusa in cui hanno prosperato cricche affaristiche, assalto ai pubblici appalti, deroghe sistematiche alle leggi della contabilità, affittopoli, parentopoli e sono prosperati naturalmente gli affari del titolare del più grande conflitto d’interessi che si sia mai visto in uno Stato che si proclama democratico, il nostro attuale presidente del Consiglio. Le sue dichiarazioni di oggi non depongono bene. Lui fa questa riforma perché i PM si presentino con il cappello in mano davanti ai giudici? E magari si aspetta che anche i giudici si presentino davanti a lui con il cappello in mano?

Noi siamo difensori delle istituzioni repubblicane o di ciò che resta di esse. Di conseguenza non possiamo non apprezzare il fatto che, dopo 16 anni di tradimenti e di leggi ad personam, il governo berlusconiano abbia finalmente imboccato la strada di una riforma. Opereremo perché il dibattito si allarghi e non si riduca all’ennesimo scontro fra falsi garantisti pelosi e feroci giustizialisti. Come ne discuteremo noi così ci auguriamo che si apra una riflessione e un dibattito “alto”, come lo ha definito Galan, all’interno della maggioranza (sperando che Galan non si riveli ancora una volta solo una felice eccezione dove la normalità è rappresentata da Stracquadanio, da Quagliariello, da Gasparri e La Russa) e che lo stesso accada all’interno del PD dove non è possibile che a prevalere siano sempre le posizioni dei Tenaglia e delle Ferranti (il responsabile della giustizia nominato da Bersani non ci aveva annunciato posizioni riformatrici? Che fine ha fatto?).

Entreremo nel merito, non contraddiremo le nostre posizioni di sempre, affronteremo i problemi che si porranno. È proprio necessario modificare la composizione del (anzi dei) CSM, anziché operare come avevamo proposto noi sul sistema elettorale? Come deve avvenire l’indicazione delle priorità nell’esercizio della azione penale: basta affidarlo alla legge (una volta per tutte e sull’intero territorio nazionale?) o occorre creare e prevedere altri meccanismi o meccanismi integrativi magari di compartecipazione? Ci è assolutamente chiaro che l’indipendenza che conta è quella non di un astratto e anonimo ordine giudiziario ma quella del magistrato giudicante: indipendenza da tutti, indipendenza che deve valere anche nei confronti degli orientamenti prevalenti dettati dagli organismi della propria corporazione. Uscito dal fascismo il costituente si era preoccupato di garantirne l’indipendenza soprattutto dal potere politico ed aveva ritenuto che l’autonomia della magistratura fosse funzionale all’indipendenza del giudice. Lo squilibrio che poi si è verificato dopo gli anni di piombo non può e non deve tradursi ora in un nuovo squilibrio, uguale e contrario. Non dobbiamo passare da un prepotere dei PM ad un PM “col cappello in mano” (non nei confronti dei giudici ma del e dei poteri).

Nei discuteremo. Ne discuteranno i nostri parlamentari sicuramente, se ce ne saranno le condizioni, con spirito di apertura e intenti costruttivi. Senza dimenticare tuttavia che questa riforma è una parte, solo una parte della crisi della giustizia. Senza dimenticare dunque la congerie di leggi e leggine che hanno preteso di affrontare con l’aumento delle tipologie di reato e l’inasprimento delle pene ogni problema e ogni emergenza sociale e l’effetto criminogeno che si traduce nel massacro di umanità che si consuma ogni giorno nelle carceri e negli OPG.

I buoni a nulla hanno le loro responsabilità per aver perso l’occasione offerta dall’indulto del 2006. Ma le principali responsabilità sono dei capaci di tutto di questa maggioranza che quelle leggi infami hanno concepito, voluto e imposto.

 

Gianfranco Spadaccia

(da Notizie Radicali, 14 marzo 2011)


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