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Enrico Marco Cipollini. Su “Padre padrone” di Gavino Ledda
22 Settembre 2012
 

Quando uscì Padre Padrone di Gavino Ledda per la Feltrinelli nel 1975, editrice allora controcorrente sovra tutto con la collana editoriale “Franchi Narratori” che vide la sua chiusura nel 1983, nell’èra del riflusso, gli italiani dovettero interrogarsi sull’Unità d’Italia, com’era tale avvenuta.

In effetti l’Unità d’Italia non fu il frutto di un consenso popolare ma fu piuttosto un compromesso tra i grandi latifondisti del Sud (come racconta benissimo Il Gattopardo, romanzo di Tomasi di Lampedusa) e l’industria del Nord.

Escluso poche regioni (tra cui cito la Toscana che dal 1400/1500 aveva una vita economica e culturale di altissimo livello: commerci con la Francia e l’Inghilterra, scambi frequenti con l’Europa e il mondo tutto), la maggior parte delle altre regioni italiane erano sottosviluppate. Nel Sud comandava il latifondo (e la fa da padrona, con il controllo del territorio capillare purtroppo la Mafia o l’antistato), nel Nord l’industria. La storiografia italiana ha sempre dato un peso eccessivo ai vari patrioti italiani come Mazzini e via dicendo, che erano sì persone piene di ottime intenzioni ma nei loro programmi pieni di nobili ideali dimenticarono sempre le riforme economiche. Non si diede peso invece a grandi uomini quali Cattaneo o Romagnosi che indicavano come l’Unità d’Italia doveva guardare, puntare soprattutto sulle differenze economiche e culturali esistenti in Italia. Furono ignorati e ci troviamo ancora oggi in un’Italia divisa profondamente per cultura ed economia sebbene siamo in Europa.

La Sardegna solo da poco si sta ribellando al dominio dell’industria del Turismo. In effetti tale isola è sempre stata arretrata: oltre la costa, dove vige il turismo, esistono tante realtà ove valgono ancora uno stato di cose atavico. In certe zone sarde vige il famoso codice “barbaricino” ovvero “dente per dente, occhio per occhio”. C’è insomma la regola del silenzio verso lo Stato, e la sua troppa lunga latitanza, il farsi giustizia da soli, un modo di vivere lontano dalla civile convivenza, tribale e selvaggio. Di questa letteratura selvaggia è esponente di punta Gavino Ledda con il romanzo in parola.

In tal contesto si muove il libro di Gavino Ledda nato nel 1938 che riporta fedelmente la sua giovinezza in terra sarda dove il padre poteva disporre del figlio a suo piacimento come un uomo della propria zappa o del proprio animale. La cultura non cristallizzata ma in progresso è (era?) disprezzata in una società pastorale, atavica, in quanto funge da anticorpo.

Il padre è convinto che il figlio sia di sua proprietà. Il romanzo infatti ha veramente inizio con una data: 7 gennaio 1944, ovvero quando il padre ritira dalla scuola elementare il figlio.

Le notti paurose nella Sardegna a fare il pastore, un mondo minaccioso, la miseria sono le linee guida del libro nella prima parte insieme alla certezza che il padre è anche padrone e il figlio solo schiavo. Senza diritti.

La seconda parte è l’inizio del riscatto di Gavino con l’intenzione di emigrare in Olanda, in una nazione civile. Negli anni 1950 nasce in Italia il movimento migratorio dei paesi del Sud verso il Nord (Torino, Milano oppure l’estero). Gavino decide di emigrare anch’egli: l’esercito. È una fuga dal padre, dalla Sardegna tribale, atavica, senza legge civile.

Dice espressamente Ledda che «il mio sardo lì non lo capiva nessuno. Io ero “muto” e senza una lingua: come un essere inferiore che non poteva esprimere ciò che pensava». È quel mutismo, il sentirsi muto, ovvero non poter comunicare le proprie esperienze agli altri, a far sì che anche lo scrittore avesse il proprio codice di comunicazione umana il punto chiave della disperazione e dell’emarginazione subite. Finalmente riesce a prendere la licenza di terza media.

La terza parte è il racconto del ritorno a casa e lo scontro con il padre e contro quella Sardegna intrisa di riti primordiali: è Gavino che lotta contro una società patriarcale, non evoluta. Ma il romanzo si conclude con la ribellione definitiva in quanto Gavino (ormai capisce il valore della Cultura, disprezzata invece da una società tribale) parte dal paese natìo e si reca a Salerno per proseguire gli studi. La cultura contro la ignoranza, la civiltà contro la barbarie, la ribellione contro il clan tribale.

Il linguaggio è realistico e frammezzato da riferimenti dialettali ed espressioni in dialetto logudorese. Tutto ciò fa sì che il romanzo abbia una unità interna, risulti essere ricco e vario. È in ultima una ricerca da parte dell’autore della conquista della libertà ma anche dei vari mezzi espressivi, linguistici per uscire dallo stato di mutismo in cui versa la società sarda.

Mutismo significa rassegnazione, odiare ciò che è nuovo, sbrigare le proprie cose non in un contesto civile ma in modo tribale, atavico, barbaro. Non uscire insomma dalle tenebre dell’ignoranza e considerare ancora l’uomo come servo o schiavo e rassegnarsi, perpetuando in tal modo, alla condizione di miseria culturale ed economica che è ancora la piaga di molte regioni italiane che hanno solo pagato il compromesso insano di un’Unità italiana tra ricchi del sud e ricchi del nord mentre le ragioni della maggior parte del popolo sono state deliberatamente ignorate. Sappiamo che lo scrittore poi si è riconciliato col padre ma resta il fatto che la tragedia che visse Gavino Ledda non è ascrivibile a persone ma ad ambienti, a storie che fan parte della nostra Storia con la maiuscola, della storia d’Italia.

 

Enrico Marco Cipollini


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