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Giovanni Esposito: La Resistenza Toscana a teatro: “Villa Triste e la banda Carità”
14 Aprile 2008
 

«Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione».

Così recita Piero Calamandrei nel “Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza”. Milano, 26 gennaio 1955.

 

Dal testo teatrale Storie di Villa Triste di Nicola Zavagli: testimonianze tratte dal processo contro la “banda Carità”. Con vivace lingua fiorentina, Gennaro Campolmi narra di quando, pochi giorni dopo l’eccidio di cinque antifascisti, il 5 dicembre 1943, cadde nelle mani della banda Carità. Nato in una famiglia antifascista, svolse attività clandestina per il Partito d’Azione, provvedendo soprattutto alla preparazione e alla consegna di documenti falsi per i ricercati, i perseguitati per motivi politici e razziali. La sua cattura avvenne dopo una spiata:

«Ero in fabbrica e vidi arrivare un certo Roberto Spinelli che era stato arrestato in precedenza. Gli andai incontro e gli dissi: Roberto, t’hanno rilasciato? Sì… m’hanno rilasciato… però ora c’è un fatto… son venuti a prender te. Allora scappo! Gli dico io. No, non scappare perché se tu scappi ripiglian me e tu lo sai in che condizioni sono. Fallo per me. Appena sortii fuori dalla fabbrica c’erano due signori con la macchina che mi fecero: che sei te Gennaro Campolmi? Si, son io! Bene allora bisogna che tu venga con noi. E mi caricarono in macchina.

Prima si passò da Santa Verdiana e lì presero un'altra ragazzina. Aveva un orecchio quasi staccato e buttava giù materia. Poi di lì s’andò alle Murate e qui presero un certo Bruno, col quale mi dissero di non scambiare nemmeno una parola. Alla fine s’arrivò in via Bolognese a Villa Triste. Si era tutti in fila indiana, io mi girai, facendo un colpo di tosse e toccandomi il naso col dito indice per fare intendere a questo Bruno di tenere la bocca chiusa. Ma non servì a nulla.

Il Carità e i suoi presero subito a interrogarmi. Volevano sapere di certe carte d’identità false. E io naturalmente negavo. Allora loro cominciarono a picchiarmi, a cazzottarmi di santa ragione, continuando a chiedermi chi mi dava i documenti falsi. Io rispondevo che nessuno mi aveva mai dato nulla, anche perché addosso a me non avevano trovato nulla. Ma loro sapevano che io li facevo, perché c’era stato chi aveva già confessato. Mi picchiavano con una foga inaudita e c’era questo Bruno che s’impressionava dalle botte che mi tiravano e m’incitava a parlare: parla, te hai tre bambini, t’ammazzeranno, parla!

Icchè ho da parlare, gli facevo io, io non so nulla, parla te, se sai qualcosa. E… ma lui quello che aveva da dire l’aveva già detto, altrimenti non sarebbero mai arrivati a me.

Siccome continuavo a non parlare, a un certo punto il Carità, spazientito, dice: lo trovo io il sistema per farti parlare, ti mando il Capitano D’Agostino, con lui tu parli di sicuro, c’ha delle mani grosse così.

Andarono via. Dopo un po’ entra questo e senza sapere né chi ero né cosa avevo fatto, cominciò anche lui a pestarmi. Che era italiano si vedeva perché era vestito da Milizia, allora lo guardai e gli dissi:- Non ti vergogni a pestarmi a questa maniera! Non lo vedi… sei italiano come me! Mi fissò un attimo…: io un italiano come te… te sei un traditore, te…, tu stai sotto e io sopra… strumm! E mi sputò in faccia. E giù botte.

C’è un altro sistema per farti parlare, mi fa ancora il Carità. Vedrai che io ti fo parlare.

Chiamò dei repubblichini e gli disse: portatelo in cella. Non si deve mettere a sedere e nemmeno appoggiare al muro. Sempre in piedi.

Io, in confronto a tutte le botte che avevo preso pensai che quella doveva essere una cosa da nulla. Ma mi sbagliavo… è una cosa terribile. Alle due di notte ero sempre in quelle condizioni…se mi appoggiavo, la guardia mi tirava una botta con il calcio del fucile e mi ributtava in mezzo alla stanza.

La mattina dopo ero stremato, la banda Carità con due tedeschi ripresero a interrogarmi e allora io decisi di cambiare tattica, mi girai verso di loro e gli dissi che avevano ragione: io i documenti avevo idea di farli, ma mi avete preso troppo presto. Io sarei andato da uno e gli avrei offerto 5000 lire per un documento falso e se lui non me lo faceva via da un altro e gliene avrei offerte 10000… finché non avessi trovato uno che me lo faceva ma m’avete preso prima…

La mattina dopo mi lasciarono andare. Tutte le botte che mi avevano dato mi provocarono la rottura di tutti e due i timpani delle orecchie e la frattura della mascella, oltre che a svariate lesioni. Appena arrivato a casa, la mia mamma, vedendomi conciato in quella maniera, si mise a piangere, ma poi subito dopo mi disse: o Gennarino, non ti sarai mica impaurito… non abbandonerai mica la lotta? Come fece incazzare sta cosa la mi’ moglie: o Maria, che discorsi sono, d’avanzo e ci pensa da sè! Se poi la ci si mette anche lei! E infatti appena mi rimisi un po’ in forze subito ricominciai la lotta fino alla liberazione.

Eh…a me mi è andata bene…i tedeschi s’erano impuntati sulla storia delle carte d’identità false…ma se l’avessero davvero saputa tutta…perché io ne ho combinate parecchie…ora non è certo il caso di raccontarle qui, ma una vorrei dirla perché mi sembra particolarmente bellina.

Una sera ci arrivò tanta, ma tanta stampa clandestina, io mi misi tutti questi giornali sul manubrio della mia bicicletta. Passai per San Frediano; era estate e la gente era tutta sui marciapiedi a prendere il fresco. Ed io zum, zum, zum, buttavo i fogli passando di corsa. Quando arrivai in via dei Camaldoli, mi rincorse una donnina che mi fece: oh che sei te quello dei giornali? Che sei un comunista? Dico: no, non sono comunista. Sono del Partito d’Azione. E lei: il Partito d’Azione? O icchè l’è i’ Partito d’Azione? Dico: è un partito antifascista. E lei: Antifascista? Allora vien qui che t’ abbraccio e ti bacio. E lo fece, lo fece davvero.

 

La fucilazione delle cascine

Quella mattina al poligono delle cascine, Mario Carità parlò al plotone d’esecuzione dicendo:

So che siete tutti dei bravi ragazzi. Non dovete impressionarvi di ciò che state compiendo; è una meritata punizione che viene inflitta ad alcuni traditori! A nessuno di voi deve tremare il cuore e la mano. È vero che non vi tremerà?

Giunsero le vittime incatenate, accompagnate da un sacerdote e furono rinchiuse in una stanza del poligono.

Qualcuno dei condannati si confessò.

Il momento dell’esecuzione era giunto.

I condannati uscirono dalla stanza.

Uno di essi disse rivolto a Carità:

Voi siete dei servi, dei vili perché vi accanite contro delle povere vittime innocenti e non avete il coraggio di battervi contro le armate anglo-americane.

Un altro disse:

Meglio centomila volte la morte che vivere come schiavi con le catene ai piedi e alle mani. Viva la Russia di Stalin. Abbasso il letamaio fascista!

Buon viaggio per la Russia allora!

Il più giovane disse:

Capitano perché non mi sparate nel petto? Voglio morire guardando la morte in faccia!

No, tu sei un traditore, hai combattuto contro la tua patria nelle file dei miliziani rossi, e devi morire come muoiono i traditori.

I cinque condannati intonarono l’“Internazionale”, tacendo soltanto quando, crivellati dai colpi, si abbatterono al suolo.

Alcuni di loro, non essendo morti subito, si contorcevano fra grida strazianti e sofferenze atroci.

Allora il Carità li finì a colpi di rivoltella.

Fu allora che il fratello del tenente colonnello Gobbi, capitano dell’esercito repubblicano, trasfigurato dall’ira, gridò contro le vittime:

Vigliacchi! Ringrazino Dio che sono morti alla luce del sole. Mio fratello è stato ucciso stanotte a tradimento., all’angolo della strada, mentre rincasava dopo aver compiuto il proprio dovere.

Dopo queste parole alcuni militi fascisti si precipitarono contro le vittime, impugnando le armi, ed esclamando fra bestemmie ed imprecazioni:

Anch’io voglio tirare un colpo, vogliamo sparare anche noi!

 

Note aggiuntive

È importante per tutti gli italiani ma specialmente per i giovani, ricordare la data del 25 aprile poiché essa è l’anniversario della rivolta armata partigiana e popolare contro le truppe di occupazione naziste tedesche e contro i loro fiancheggiatori fascisti della Repubblica Sociale Italiana; una lotta lunga, condotta con coraggio dai nostri partigiani che annoverarono tra le loro fila molti giovani e giovanissimi; una lezione di coraggio che nessuno di noi dovrà mai dimenticare.

A Firenze, le violenze più efferate furono perpetrate a Villa Triste, sede di una sezione della polizia politica tedesca e di un reparto della milizia repubblichina; un palazzo situato in Via Bolognese 67, così soprannominato per gli atti criminosi che in esso furono perpetrati ad opera della 92ª legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, (conosciuta come “Banda Carità”, dal nome del comandante: Mario Carità) dal settembre 1943 all’agosto 1944. La banda era formata da delinquenti comuni, colpevoli di reati gravi, ladri, rapinatori, evasi dalle prigioni; delinquenti che con l'adesione alla R.S.I. si garantivano l'impunità per le loro imprese scellerate e dare sfogo al loro istinto sadico. Facevano parte della banda anche due sarcerdoti: un frate, padre Ildefonso, al secolo Alfredo Epaminonda Troia, nato ad Arcinazzo, nel 1915, che era solito assistere alle torture dei patrioti suonando al pianoforte canzonette napoletane o l'“Incompiuta” di Schubert; e don Gregorio Baccolini, cappellano delle SS e propagandista del Partito fascista repubblicano».

 

Villa Triste venne utilizzata come carcere e luogo di torture fino alla Liberazione di Firenze, nel settembre del 1944; lo spiazzo su cui si affaccia fu in seguito intitolato a Bruno Fanciullacci, una delle vittime. (Salò vita e morte della Repubblica Sociale Italiana, di Silvio Bertoldi - Rizzoli Milano, 1976, pag. 252, di quel Mario Carità che riempirà di terrore con le sue gesta la città).

 

 

Mario Carità fu catturato dagli americani nel maggio 1945, nella stanza di una pensione dell'Alpe di Siusi, in Alto Adige, dove egli pensava di essere al sicuro e morì colpito da molte fucilate. Gli altri componenti la banda vennero catturati dopo la Liberazione. Processati alla Corte d'Assise di Lucca nel giugno 1951, alcuni di essi furono condannati all'ergastolo, altri a pene minori, altri ancora assolti per insufficienza di prove, o con formula piena... Ma intervennero condoni e amnistie varie che abbreviarono enormemente i tempi della pena.

 

Giovanni Esposito


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