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Cappato e Perduca. Ma quale pace senza politica?
Torino, 20/07/2006. Manifestazione davanti alla sinagoga
Torino, 20/07/2006. Manifestazione davanti alla sinagoga 
30 Agosto 2006
 

Venerdì 26 giugno, si sono riuniti a Bruxelles i ministri degli Esteri UE. L'Italia, che si è candidata a giocare un ruolo di primo piano nella crisi mediorientale, dovrebbe fare un passo ulteriore nel tentativo di costruire una pace finalmente duratura e fondata sul rispetto della legge. Per far ciò occorre che la risposta 'militare' venga inserita in un contesto di più ampie scelte politiche che riportino l'Unione europea a giocare un ruolo centrale di aggregatore, affermando l’urgenza di una grande “patria Europea” contro la deriva da “Europa delle patrie” che invece sempre più la caratterizza.

Sono decenni che Marco Pannella si batte per attualizzare quanto ispirò il Manifesto di Ventotene 60 anni fa, denunciando i limiti, se non le oppressioni, dello Stato nazionale. Dal 14 agosto, su iniziativa del Partito Radicale Transnazionale e di Pannella stesso, è in fase di convocazione un grande Satyagraha per la pace, un'azione di ispirazione nonviolenta gandhiana, che ha come obiettivo finale quello di una pace duratura in Medio Oriente e come “strumento” quello del "ricongiungimento" di Israele nella UE. Si propone una rapida conversione di Israele alla sovranità limitata di già propria agli altri 25 Stati membri dell’UE, perché solo così «è possibile organizzare una Politica di Pace come alternativa alla probabile guerra imminente».

Nel dibattito che occupa le prima pagine di tutti i quotidiani mondiali si continua da affrontare la questione da una prospettiva troppo ristretta rispetto all'importanza dei giochi regionali e alle ripercussioni che scelte di discontinuità potrebbero avere. La proposta radicale si situa proprio in questo contesto e riguarda più il rapporto tra “pace” e “Stato nazionale” che non gli assetti della geopolitica mediorientale, anche se, chiaramente, questi ne risentirebbero notevolmente.

Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, durante l'infuocarsi della Seconda Guerra Mondiale, lo avevano già denunciato a chiare lettere: «Lo Stato», scrivevano in esordio del Manifesto di Ventotene, «da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l'efficenza bellica». Occorre riportare quel monito visionario al centro dell'agire delle istituzioni di Bruxelles ma anche delle più attive capitali europee. In oltre un mese di conflitto nessuno pare ritenere che l'Unione europea possa giocare altro ruolo che quello del mediatore tra le “parti” oppure del finanziamento alla ricostruzione post-bellica, dove gli iraniani stanno già facendo la parte del leone attraverso Hezbollah. Ma cosa ci si può aspettare dalla mediazione in un contesto che vede il petrolio a quasi 80 dollari, l’Iran che studia da potenza nucleare e che con la Siria sostiene il complesso sistema terroristico che vuol destabilizzare Palestina, Libano e Iraq?

Perseguire politiche di “stabilimento” o “mantenimento della pace” su mera base militare potrebbe essere foriero di conflitti di impossibile gestione o vittoria. L'esperienza della ex-Jugoslavia lo dovrebbe insegnarcelo.

La risposta europea questa volta deve essere pienamente politica. Se neghiamo la concreta prospettiva di adesione ai nostri vicini balcani e mediterranei, l’UE perderà quel potere di attrazione – in buona parte già compromesso – che può esercitare in quanto spazio di pace, di libero commercio e di “perseguimento della felicità”, oltre che di quella “sicurezza” fondamentale per qualsiasi negoziato. Lo scriveva il 20 agosto Pannella sul Corriere della Sera: «Israele, parte di un’Unione Europea di oltre mezzo miliardo di persone, potrebbe essere indubbiamente più disponibile e interessata sia a rinunce territoriali, sia a rapporti politici istituzionali ed economici radicalmente nuovi con Libanesi democratici, con uno Stato democratico palestinese, con l’intero Medioriente».

Non deve però sfuggire che alla responsabilità europea corrisponde anche quella israeliana. Infatti, all'indomani della prima intifada, il Partito Radicale, da sempre vicino alla “difesa di Israele”, convocò nel 1988 il suo Consiglio federale a Gerusalemme mettendo in guardia sul fatto che in Israele «una vecchia classe dirigente […] si è rivelata incapace, sul piano delle idee e del governo, dell'amministrazione, di concepire in modo moderno ed efficace sia la prevenzione sia la repressione, muovendosi secondo una strategia vecchia di cinquant'anni, che isola Israele, tanto più che nel mondo predominano conformismo, demagogia, sottovalutazione del pericolo mortale che rappresentano i regimi totalitari, di destra o di sinistra che siano». Oggi occorre che sia Bruxelles che Gerusalemme rilancino formalmente il proprio rapporto per definire un percorso che possa portare alla piena membership europea di Israele da ricercare tanto a livello istituzionale che di confronto con l’opinione pubblica.

Nel 2004 un sondaggio commissionato dalla Commissione Europea ha rivelato che l’85% degli israeliani (ebrei o arabi) risulta essere a favore della piena adesione di Israele all’Ue. In questo agosto “mediorientale” Pannella torna alla carica con la speranza del nonviolento che finalmente si passi alla creazione di una Pace che possa essere concreta alternativa «all’altrimenti probabile, prossimo scatenamento di una guerra globale, senza confini geopolitici, etici, umani».


Marco Cappato e Marco Perduca

(da Notizie radicali, 29/08/2006)


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