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Yoani Sánchez. Dal mondo virtuale al mondo reale
26 Gennaio 2013
 

Lo schermo illumina il suo volto mentre le dita corrono veloci sulla tastiera. All’esterno la vita procede come sempre, le auto suonano il clacson e un cane passa in fretta davanti alla porta. Sembrerebbe che fuori dalla porta la vita tecnologica sia destinata a cedere di fronte alla realtà, ma al principio di questo terzo millennio è ormai impossibile tracciare un confine netto tra il mondo virtuale e il mondo concreto che ci circonda. Camminare lungo i marciapiedi, affacciarsi agli incroci, scambiare parole con gli amici, ogni nostro atteggiamento è in qualche modo collegato a quell’universo di pixel e kylobites.

Un blogger è una creatura meticcia, a metà strada tra due dimensioni: la superficie dove abita e un ciberspazio ricco di infinite possibilità espressive e creative. È un anello che deve fare i conti con molteplici fenomeni: il giornalismo e la scrittura digitale; l’era degli esperti di Internet e quella degli estranei alla rete; la protesta con una pietra in mano e le nuove domande civiche via Facebook o Change.org. Proviamo su di noi il dilemma tra vivere o narrare ciò che accade via Twitter; osservare o scattare foto con l’obiettivo dell’iPhone; amare o inviare un emoticon dal volto sorridente al telefono mobile del nostro compagno. Dobbiamo scegliere tra comportarci solo come cittadini nella grande ragnatela mondiale o farlo anche in questo mondo composto da clacson che suonano, cani che passano e corpi che provano emozioni.

Essere internauta in questo secolo XXI, significa affrontare anche il concetto di responsabilità. La responsabilità di assumere una voce pubblica anche se ci nascondiamo dietro uno pseudonimo. La responsabilità di esporre le nostre opinioni allo sguardo di milioni di potenziali lettori. Il costo personale e sociale di così tanta audacia si comincia subito a sentire in maggiore o minor grado. Il vicino che ci dice: “Ti ho letto” mentre abbozza un sorriso complice, l’avversario che snatura il significato delle nostre parole e persino i lettori che dicono: “Chi te l’ha fatto fare di raccontare queste cose?”. Una volta che abbiamo oltrepassato la linea sottile che separa il silenzio dalla libera espressione nella rete delle reti non avremo più pace… ma neppure noia.

Se la nostra voce infastidisce qualche potente, un grande gruppo imprenditoriale come un governo autoritario, gli effetti saranno ancora più seri. Diventiamo l’anello più fragile che può far rompere la catena, anche se presentarci solo come vittime non è sempre la verità. Vedere il blogger come un piccolo David che affronta la forza fuori dal comune del Golia conformista o dei monopoli corporativi ha prodotto una schematizzazione da cui dobbiamo uscire. La tecnologia di per sé non ha un’etica, quindi adotta parte della personalità e del comportamento di chi la utilizza. Nei blog troviamo di tutto: dai lodevoli progetti altruisti fino alle più basse passioni umane. Abbiamo creato il ciberspazio a nostra immagine e somiglianza, tra chiari e scuri che ritraggono le nostre bassezze e i più elevati gesti di bontà.

 

Cittadini 2.0 versus regimi 0.2

 

Dati deformati dal troppo digitare, pensieri che si esprimono in frasi composte da 140 caratteri, tastiere di ultima generazione, capacità di leggere in diagonale e uno sguardo smarrito se la vita non si comporta come finestre che si chiudono e si aprono, cestino virtuale compreso. Ogni internauta consumato si è trasformato in una sorta di mutante, in un essere compreso tra l’universalità dei suoi spazi virtuali e la condizione locale della sua esistenza. Al giorno d’oggi i blog sono un conglomerato di pluralità tematica e formale difficile da definire e da classificare. Si trovano favolosi collezionisti di ricette di cucina, scrittori frustrati che pubblicano ogni settimana testi sublimi o ridicoli, fanatici del baseball che difendono in ogni post le giocate della loro squadra preferita, persino smemorati che un giorno hanno creato un sito su Blogger.com o su WordPress e hanno pubblicato soltanto un post intitolato “Ciao Mondo”. Ma ci sono anche blog dove ci giochiamo la vita e la libertà, blog del tutto per tutto, del rischio che cresce a ogni parola pubblicata.

Nei paesi dove esiste un rigido monopolio governativo sulla stampa, gli informatori indipendenti sono visti dalla propaganda ufficiale come nemici, senzapatria e mercenari. Di solito, in quelle società capita che l’acceso a Internet sia ristretto e severamente controllato. Sono, nella maggior parte dei casi, nazioni dove la possibilità di connettersi è un privilegio concesso ai più fidati o dove il web finisce per essere un mostro di siti filtrati perlustrato da disciplinati soldati tecnologici che devono combattere senza tregua fori e portali. Gestire un blog informativo o di opinione in regimi di natura totalitaria è come spararsi da soli un colpo di pistola alla tempia; come autodenunciarsi al poliziotto di passaggio gridando: “Sì, sono stato io!”. Ma è vero - incredibile paradosso - che in simili paesi, esprimersi nel ciberspazio può dare maggiori probabilità di successo che nella vita reale.

La repressione contro i blogger dissidenti nella maggior parte dei casi si verifica nel mondo reale. Vigilanza, persecuzione, carcere e, nelle situazioni più drammatiche, la morte come punizione per aver osato informare o esprimere la propria opinione. Esistono anche altre strategie per renderci la vita difficile: fucilazione mediatica sulla stampa ufficiale, lapidazione della nostra immagine pubblica tramite diffamazione, intimidazione agli amici che ci circondano perché non si avvicinino e velate minacce sussurrate all’orecchio delle persone che più amiamo completano il quadro “dissuasivo” che ha prodotto la chiusura di molti siti alternativi. I poliziotti del pensiero sono diventati molto sofisticati nella battaglia del ciberspazio. È quello il luogo dove contrattaccano, lanciando sugli attivisti cibernetici ondate di kilobytes diffamatori come risposta a critiche e denunce.

Se cediamo all’impulso di rispondere all’insulto con altri insulti, al grido con le grida, facciamo soltanto il gioco degli intolleranti che vogliono trascinarci sul terreno della violenza verbale. Può capitare che invece di attaccare come strategia di protezione, cominciamo a dedicare buona parte dei testi che scriviamo per giustificarci e per tentare di ripulire la nostra immagine. Gli anonimi accusatori avranno ottenuto lo scopo di distoglierci dal percorso sociale per rinchiuderci nel labirinto dell’autodifesa. In questo caso la responsabilità si impone con maggior forza. Molti di noi hanno dovuto affrontare simili situazioni, ci sono momenti in cui ci siamo chiesti perché mai un giorno ci siamo avvicinati a un computer, abbiamo digitato alcune frasi e pubblicato il nostro primo post. Momenti che sono diventati sempre più frequenti mano a mano che il tempo passava e continuavamo a fare i reporter alternativi del ciberspazio. Accadrà ancora. Ogni giorno ci chiederemo se valga la pena pagare un così alto prezzo pubblico e personale per raccontare ciò che accade nei nostri paesi. Dovremo affrontare un cammino solitario fatto di dubbi e paure confidando solo in noi stessi. Migliaia di siti internet esporranno nella home page il cartello con scritto “chiuso”, abbandonando la lotta. Il mestiere del blogger significa resistenza ed è una carriera colma di ostacoli. È più facile arenarsi tra gli scogli che andare avanti. Serve tanta buona volontà per ottenere qualche risultato, ma incontrare la solidarietà di altre persone sarà determinante.

Ogni volta diventa più difficile per i regimi autoritari attaccare i dissidenti e i difensori dei diritti umani senza provocare repulsione da parte del web. Un’etichetta ripetuta sino allo sfinimento su Twitter, una petizione corredata da migliaia di firme per la liberazione di un individuo, un’alluvione di messaggi contenenti domande sui siti ufficiali di certi governi, sono strategie che stanno dando alcuni risultati. Gli strumenti virtuali incidono sulla realtà e la fanno cambiare. Piazza Tahrir in Egitto resta l’esempio reale più calzante. L’insoddisfazione civica contro un governo autoritario al potere da trent’anni ha trovato nelle reti sociali, nei blog e nei telefoni mobili gli strumenti vitali per riunire e convocare.

Nelle rivoluzioni arabe, gli schermi e le tastiere sono state un canale per favorire la ribellione, ma il punto di ebollizione si è raggiunto gomito a gomito, corpo a corpo, per le strade. Il mondo virtuale ha spinto tutti quei giovani a lottare nella realtà, dopo averli resi più forti e aver fornito una coscienza civica.

 

Yoani Sánchez

(dal Blog Cuba Libre, El País, 23 gennaio 2013)

Traduzione di Gordiano Lupi


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