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Natale Tf2014/ Don Franco Patruno: “L'arte riflette il destino dell'uomo” (1999)
27 Dicembre 2014
 

Il cammino della storia della salvezza si presenta come paradossale, come è dimostrato dal fatto che una teologia biblica della storia non può totalmente coincidere con il divenire degli eventi in quanto tali.

Il Natale, infatti, non è il punto culminante di una evoluzione, né un ritorno ciclico ad una età primigenia, quasi un ritorno al Paradiso terrestre. Quando si parla di “pienezza del tempo”, questa non può essere intesa come un vertice geometricamente misurabile: è sempre l’intervento divino, assolutamente libero e trascendente, che realizza lo splendore cantato nel prologo di Giovanni, cioè il Verbo che si fa carne. Non appaia inopportuno un parallelo, puramente analogico s’intende, con il possibile cammino delle forme d’arte. Come segno offertoriale della creatività umana, l’arte stessa riflette in un modo particolare quell’immagine e somiglianza che il Creatore ha partecipato all’uomo e al suo destino. Una riflessione sul pellegrinaggio delle forme artistiche può quindi aiutare una meditazione su quell’itinerario di fede che culmina con l’intervento definitivo del Padre nella storia degli uomini: il Natale.

L’idea di un cammino dell’arte, cioè di un procedere verso una meta, può presupporre uno sviluppo ed una evoluzione. Bisogna però liberare i due termini dall’illuministica concezione che le opere d’arte, come pure quella che noi chiamiamo “storia dell’arte”, abbiano urgenza o interna necessità di “andare verso il meglio”. In altri termini: il pellegrinaggio dell’arte non prevede che, avvicinandosi ad una meta che si crede simbolicamente significativa, ciò che un giorno si realizzerà sarà “necessariamente” più qualitativo di ciò che lo ha preceduto. Cioè: più bello e più artistico. Purtroppo, un’implicita prospettiva evoluzionistica governa altrettanto impliciti giudizi: l’opera dei “primitivi” deve liberarsi progressivamente da ambigue e “grossolane” forme per accedere alla superna bellezza della perfezione classica, raggiunta, e non è un caso si ripeta il termine classico, nel periodo “aureo” dell’arte greca. Ricordiamo gli effetti di questa filosofia dell’arte: in un determinato periodo storico si è raggiunta la perfezione degli equilibri formali, specchio degli equilibri che devono presiedere la vita sociale. Allora ad un cammino verso una meta che si è concluso in passato, deve corrispondere un “salto all’indietro”, cioè un percorso a ritroso; ed anche gli edifici ecclesiastici, come pure le singole rappresentazioni pittoriche e plastiche, troveranno misura, equilibrio e giusta proporzione riproducendo schermi che manifestino il pondus dell’arte greca nel suo periodo aureo. Altro cammino ambiguo e fascinoso è quello che percorre la storia secondo ritmi biologici e che rivive romanticamente i cicli delle stagioni. Strano pellegrinaggio questo, ma largamente accettato anche da chi non ne conosce le premesse ideologiche: ad un periodo di fioritura e di pienezza naturalistica, fa seguito la decadenza dell’autunno e del gelido inverno, nell’attesa della primavera delle rinnovate intuizioni creative. Questa visione ciclica della storia porta con sé il cammino non solo delle forme ma pure del pensiero: è in questo contesto che anche l’arte cristiana patisce indebite “decadenze”. Si pensi alla puntualizzazione delle forme barbariche che, secondo un errato concetto di imitazione della bella natura, vengono interpretate come rozze stilizzazioni senza “grazia né beltade”.

Si potrebbe tracciare un grafico sia del modello evolutivo che di quello ciclico-biologico: nell’uno e nell’altro caso la ricerca della meta non è la forma in se stessa, ma la semplice verifica dell’intreccio di elementi che la compongono e che la qualificano come minore o maggiore secondo la fase storica che sta vivendo. Storicismi di vecchia e nuova data si alternano in una lettura predisposta non solo alla precomprensione ma al pregiudizio. È penoso notare che la condanna generica del secolo che stiamo vivendo, (incluso, per facilità di schemi immediatamente gratificanti, nella categoria della “modernità”) abbia invece liberato il nostro sguardo da questa incapacità di vedere e comprendere il cammino dell’arte. Recependo con stupore la bellezza della Deposizione di Rosso Fiorentino a Volterra, ci si è accorti dell’assoluta novità di quella “maniera” un tempo disprezzata. Ma se si osa ben oltre, la meraviglia per gli spazi inediti delle formelle del portale di San Zeno a Verona hanno abilitato l’occhio vigile e attento a non includerle in un augusto cammino verso la pienezza di forma tardo medioevale. Il cammino dell’arte, come hanno inteso felicemente Focillon e Pareyson, è costruito e definito dalle forme in se stesse. La loro autonomia non è un’arte per l’arte che può ricordare il limite dello stadio estetico descritto da Kierkegaard. Mentre l’autocompiacenza della forma per la forma, isolando questa dalla storia, ne fa un semplice abbellimento salottiero, la forma in sé autonoma “si tiene in mano”, come direbbe Guardini. Ciò significa che è nell’opera d’arte che la storia è incisa. Si pensi, come esemplificazione, all’Annunciazione di Cosmè Tura nel Museo dell’Opera del Duomo di Ferrara. L’intuizione dell’artista ha saputo unire elementi cari alla tradizione medioevale con alti di evidente impatto fiammingo.

Roberto Longhi ha reso familiari i modi del Tura per quest’opera di acculturazione e di inculturazione, constatando la novità e l’assoluta irripetibilità di questa intuizione felicemente realizzata nell’opera. All’interno della pala del Tura, gli studi iconologici hanno interpretato sogni e simboli della cultura del tempo, compreso il fascino di astrologiche inclusioni. La storia, quindi, nell’opera; e l’opera stessa testimonianza storica a tutti gli effetti. Ma non sarebbe completo questo cammino di lettura se si fermasse alla sola ricognizione dei segni e dei simboli in essa presenti. È un giudizio globale invece che, come sguardo non ingenuo, ci porta a dire che l’opera è “riuscita”, nel senso che nessun elemento le manca per essere quella che è. In questa globalità di sguardo e di giudizio abita lo stupore e la meraviglia per tale compimento. Allora il cammino dell’arte si fa meno impreciso, soprattutto se liberato da preconcetti di evoluzione o involuzione, da ciclici ritorni o avvertenze di decadenza autunnale.

Certo, in questo cammino del quale è complesso disegnare la mappa del percorso, l’evoluzione dei mezzi tecnici non viene negata; anzi, questa conferma che da sola non è sufficiente per definire la qualità dell’opera.

Se il Novecento che è giunto al termine ha vissuto un’accelerazione stupefacente delle possibilità tecniche al limite della virtualità, la velocità che ha caratterizzato il suo cammino non ha avuto tempo di interiorizzarne le possibilità e nell’illusione di far coincidere la progressione di mezzi con la qualità delle forme e delle opere.

Suo enorme pregio l’aver valutato e conservato il cammino precedente anche attraverso il restauro che ridona primitivo splendore.

Il cammino dell’arte segue un ritmo che è di formazione e trasformazione. Sono debitore da molti decenni, anche nell’uso di alcuni termini, del pensiero estetico del Luigi Pareyson che, reagendo sia ad una visione intimistica (o di pura espressione interiore) che ad una prospettiva meramente sociologica delle forme intenzionalmente artistiche, rivaluta l’antica tradizione della formatività che vede la contemporaneità dell’operare personale dell’artista e della materia “in via di formazione verso la riuscita”. Dal punto di vista dell’esperienza artigianale, formazione significa un lento percorso di assimilazione e di “officina”: Botticelli e Leonardo, pur nella già presente originalità del loro tratto pittorico, dipingono due famosi angeli nel Battesimo di Cristo del loro maestro Verrocchio. Esempio classico ma sempre efficace. L’originalità fiorisce nella continuità. Il cammino è simile ad un tessuto nel quale l’imitazione del maestro già suppone una metamorfosi. Nel Tributo della moneta di Masaccio l’esemplificazione è eclatante: il maestro Masolino deve essere rimasto stordito dalle novità dell’impeto realista dell’allievo. La Cappella Brancacci al Carmine diventa così esempio di come l’originalità dell’impostazione spaziale, l’individuazione psicologica dei soggetti rappresentati e la centralità teologica del Cristo all’interno di un cilindro prospettico, non sono per nulla compromesse dal vincolo generativo, cioè dalla bottega di Masolino. Nel cammino delle forme intenzionalmente artistiche, alcune di esse manifestano una così prepotente novità che sembra interrompere la tradizione per indicare vie totalmente inedite. Si pensi, oltre al significativo esempio del Tributo masaccesco, all’impatto popolare con La morte della Vergine del Caravaggio o con la tragicità del non finito michelangiolesco nella Pietà Rondanini. Non c’è solo un cammino delle opere, ma anche della fruizione e dell’interpretazione, anche se questo non sempre è parallelo o simmetrico alle novità delle opere in quanto tali. Modalità espressive di realismo apparentemente popolare possono creare disagi nella continuità di una lettura abituata a sintesi plastiche più docilmente accattivanti. Ma Caravaggio è ben consapevole di non essere fuori da un cammino delle forme: la sua intuizione è prevalentemente luminosa, quasi giovannea nello svelare il massimo di verità dei volti in contrasti di ombre che subitaneamente evitano l’equivoco di un realismo di facile consumo crepuscolare. Tutto il cammino dell’arte europea fino all’Olanda è conquistata da questo solco tracciato. Sembra, per alcuni decenni, che questo solco diventi “canonico” e quasi legge di perfezione. Ma già in Italia il “caravaggismo” assimila nuovi elementi dalle Fiandre, come dimostrano scuole che, come quelle di Genova, riescono ad intrecciare la luce caravaggesca a complesse scenografie simili alle scenotecniche teatrali. Ma ogni vera opera riuscita non è il frutto evolutivo che dal “basso” finalmente raggiunga vette insospettabilmente alte. Il cammino è sempre, anche quando l’originalità appare a tal punto impetuosa da non sopportare origini, di continuità e singolarità. In altri termini: pur essendo complesso l’intreccio di relazioni evidenti nella riuscita forma d’arte, l’opera non può esaurirsi in questa rete di rapporti. La sua compiuta ed autonoma realtà è oltre gli influssi evidenti, i richiami ad una scuola e l’uso di simbologie care ad un’epoca. Ciò vuol dire che il cammino interpretativo non può fermarsi solo alle necessarie metodologie di approccio, anche se queste hanno indubbia rilevanza per liberare lo sguardo da facili e spontaneistiche letture. La meta, quindi, non è solo un orizzonte futuro assicurato in anticipo: il suo divenire coincide con altre opere che ancora non sono, ma di cui il presagio e, in un qualche modo, l’anticipo è presente nell’apertura dell’opera stessa. In questo senso l’arte riflette, anche se solo per analogia, il destino dell’uomo che troverà compimento solo nel mistero di Dio.

 

Franco Patruno

(da L'Osservatore Romano, dicembre 1999)


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