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La passione dell’ostacolo 
Un saggio di Francisco Morán su Juana Borrero (parte Terza)
26 Giugno 2017
 

3. L’incontro con Carlos Pío Uhrbach. La Morte

 

Alla fine del 1894 la Biblioteca de La Habana Elegante pubblica la raccolta di poesie Gemelas, dei fratelli Carlos Pío e Federico Uhrbach. Il libro reca la dedica “Alla memoria del maestro Julián del Casal” e si avvale di un’introduzione curata da Aniceto Valdivia (Conte Kostia). Presto il volume di versi giunge tra le mani di Juana Borrero, che annota nel suo Diario: «È appena arrivato nelle mie mani il libro degli Uhrbach, Gemelas. (…) Non so perché, ma intuisco tra queste pagine qualcosa di attraente e triste». Presto la sua attenzione si concentra su Carlos: «Il primo ritratto…! È un volto superbo. Carlos deve essere pallido, un malato» (EI 39). Più tardi, in un biglietto del febbraio del 1895, il dardo del suo desiderio fissa Carlos Pío alla corrente irrefrenabile della scrittura: «Ho appena pensato a qualcosa di inaudito, impossibile, temerario. Ascolta Carlos. Entro due mesi tu sarai mio o io sarò morta» (41). Ancora una volta sarà l’impossibile a mettere in moto il suo desiderio, e in una lettera confessa a entrambi i fratelli: «Mi tormenta l’ossessione dell’ostacolo» (43).

Ricordiamo, a proposito di Juana Borrero, quel che afferma Vitier ne Las cartas de amor de Juana Borrero (Letras Cubanas, 2000): «Prima di leggere il suo voluminoso epistolario tutti credevamo che Juana Borrero fosse stata una bambina precoce, poetessa e pittrice di eccezionale talento, che aveva sentito una profonda attrazione per Julián del Casal e una passione, in un certo senso derivata da quella, (sic) per Carlos Pío Uhrbach». Vitier riconosce che «tutto questo continua a essere certo», ma conclude che «la prima cosa da considerare, qualitativamente, non è tanto il talento artistico (…), ma il pathos vitale di un’esistenza totalmente consegnata al destino amoroso». Una lettura che conduce, ancora una volta, alla caratteristica teleologica della Nazione (Cintio Vitier, Lo cubano en la poesia, La Habana, Letras Cubanas, 1998):

Se pensiamo che quel nome (Juana) fu anche quello di Cuba, e che il senso amoroso, prima di tutto destino storico, in esso racchiuso, è lo stesso che Martí vedeva nella nostra isola, ci sembra che su un piano profondo le contraddizioni si dissolvano, e che Carlos Pío morendo per Cuba, morì per Juana, e che lei, morendo nel suo delirio d’amore assoluto, si consegnava alla patria arricchendola con il mistero del suo destino straordinario.

In questa immagine poetica vediamo le nozze dell’eroismo, il sacrificio e la passione amorosa. Si tratta della caratteristica epifania con la quale deve culminare sempre la celebrazione barocca di quel che è cubano, celebrazione che non può risolversi se non nella cancellazione delle contraddizioni. Ma, per arrivare a questo risultato, dovremmo sempre mettere a tacere certi testi, dei gesti scomodi, tutto quello che non serve a mettere in luce il volto della nazione. Dovremmo trascurare, per esempio, che se Juana è Cuba, su entrambe – cioè sull’Isola e sulla sua creatura – volteggia, fatidico, l’uccello della follia. È certo che c’è una passione, un pathos, che definisce la traiettoria poetica, umana ed esistenziale di Juana Borrero. Ma contrassegnando quel pathos con il marchio della passione amorosa, si mettono in secondo piano, si nascondono – ungendolo con l’olio sacro dell’amoroso-nuziale – le sue salite di tono, le sue sconcertanti deviazioni. Per questa ragione, preferisco parlare del desiderio e dell’ostacolo che, senza negare la possibilità reale, e persino intensa, dell’esperienza amorosa, ci permettono di andare ben oltre la stessa: viverla, metterla da parte, negarla, manipolarla, giocare con lei. Tanto Casal come Carlos Pío fornirono a Juana il combustibile che esigeva il suo desiderio: l’ostacolo, la barriera dell’impossibile. E certamente il suo desiderio non poteva essersi aggrappato a due impossibili più resistenti. Casal era il freddo, il marmo insensibile, come quello che, nel sonetto Apollo, Juana tenta di sedurre. E in quanto alla relazione con Carlos Pío, nacque sotto il segno della proibizione paterna. Juana, sedotta da quell’ostacolo, lo farà crescere fino a trasformarlo in un muro terribile, e pertanto, degno del suo desiderio, delle sue forze: «È davvero molto temerario che io ti scriva in queste circostanze», dice a Carlos (EI 135). E in un’altra lettera: «Tu davanti a me facendo l’indifferente e parlando di tutto, e papà che vigilava» (213). Quella vigilanza rende metaforica la cella di Juana, limitata, definita dal campo visivo dello sguardo paterno. E, drammatizzandolo, Juana lo utilizza come strumento retorico che consolida la sua resistenza:

Non credere che Papà dica certe cose tanto per dire. Il suo carattere energico non contempla la minaccia come una cosa fine a se stessa, ma come qualcosa che si compirà. Noi che lo conosciamo sappiamo fino a dove arriva la sua indissolubile volontà. Ti rendi conto che non è solo la codardia né il semplice timore a spaventarci? No, non recarmi un’offesa tanto ingiusta. Nello stesso momento in cui ti scrivo, quante complicazioni, quanti pericoli, quante minacce attiro sulla mia testa! (EI 216)

Di sicuro la sua non fu una reclusione strettamente metaforica. Probabilmente tutti i suoi timori erano infondati, ma non dobbiamo dimenticare che la resistenza di Juana aveva bisogno anche di un ostacolo che fosse alla sua altezza. La prigione, la vigilanza del padre, le mura della grande casa familiare inquietano e producono la scrittura. Il suo corpo gravita proprio in direzione di quel crocevia di prigionia e linguaggio. «L’isolamento genera le mie tristi visioni di sangue e morte», riferisce a Carlos (EII 119). Non basta, tuttavia, la proibizione paterna. L’ostacolo deve inserirsi, anche, nell’oggetto dello stesso desiderio. Ed ecco farsi largo la passione – di non altro si tratta – della gelosia, in Juana Borrero. Nell’accidentato territorio simbolico della gelosia si accende, in profondità, l’impulso (auto)distruttivo della passione. In quello stesso territorio si vengono a delineare, nei suoi stessi lavori, le linee di frontiera e i diritti doganali. In primo luogo, è tramite la gelosia che la passione dell’assoluto può (auto)riconoscersi nella progettata scena di un crimine. «Sono capace del crimine per non perderti» (EI 305) dice Juana a Carlos Pío, minaccia che ripeterà con monotona insistenza: «Mi sento capace del crimine per non perderti» (315). E in un’altra lettera: «Quel che mi fa soffrire è la sfrontatezza delle diaboliche. Oh, con loro sono implacabile! Le ucciderei con freddezza, credimi. Se io sospettassi che una di loro volesse attirare la tua attenzione… povera lei» (EII 369). Non si tratta di mere minacce, e Juana lo avvisa: «Con una rivale sarei implacabile. Quando non amavo come ti amo, mi vendicai crudelmente di una donna che tu hai già visto una volta» (EII 160). C’è un punto in cui l’oggetto che va distrutto comincia a oscillare, in modo tale che risulta impossibile separare il desiderio che minaccia (la rivale, supposta o reale) dal desiderio minacciato (Carlos Pío). Questo succede perché l’energia libidinosa può solo realizzarsi come scarica di distruzione e morte. «Il tuo amore mi porta all’estasi e al crimine» (EI 333), confessa. Si succedono, infatti, gli inviti suicidi e le pulsioni criminali nella sua corrispondenza. Tutto questo, inestricabilmente intrecciato all’erotismo pungente della ferita, della carezza che graffia, taglia, separa: «Carlos, vuoi che andiamo verso il luogo dal quale mai si ritorna? Vuoi morire come me?» (EI 318), «Ti amerei anche se tu fossi un grande criminale» (EI 347), «Ti accarezzerei persino con la punta di un pugnale» (EI 376), «Comprendo perfettamente che tu voglia uccidermi» (EII 153). Forse uno dei momenti della corrispondenza che meglio riflette questo conflitto è quando lei dice a Carlos: «Vorrei ucciderti senza toglierti la vita, annientarti senza perderti» (EII 194). Il piacere non consiste nel distruggere l’oggetto del desiderio, ma nel distruggerlo all’infinito. Non si tratta di annientarlo per sempre, ma incessantemente. Questo piacere devastatore smantella ogni frontiera, includendo, beninteso, quella dello stesso soggetto che desidera. Così Juana riferisce a Carlos un sogno nel quale quest’ultimo era andato in spiaggia. Era un mese che non lo vedeva e che non arrivavano sue lettere. Juana si rese conto che lui si era sposato. Ma leggiamo il suo racconto:

Trovai l’indirizzo della vostra casa. Una notte, mentre tu e lei mangiavate distrattamente, mi introdussi nell’alcova e mi nascosi dietro le tende. Restai in attesa. Con le labbra tremanti di angoscia e tra le dita un piccolo pugnale, una sorta di stiletto che giorni prima mi era stato regalato da Rosalía. Fu così che ti sentii arrivare e udii sfiorare la sua gonna sui tappeti. Mai, finché vivrò, dimenticherò quella donna, quella sconosciuta che non esiste e che camminava sorreggendosi al tuo braccio. Passarono due minuti. Voi camminavate lentamente conversando a voce bassa. Alzai la mano e le affondai il pugnale nel cuore. Allora accadde qualcosa il cui ricordo mi terrorizza... Quella donna ero io stessa (EI 372).

Il piacere che cita il testo è quello della sua (auto)distruzione. Nel pugnale – una sorta di stiletto – che gli regala l’amica, riconosciamo il regalo di Casal, ma, soprattutto, riconosciamo la codificazione simbolica – al tempo stesso erotica e omicida – del regalo. Solo che la gelosia porta Juana a una ben diversa situazione: la repulsione e la fascinazione erotica si (con)fondono pericolosamente. Riferendosi a una precedente amante di Carlos, dice: «Quante volte lei ti avrà baciato! Quante volte avrà appoggiato la sua fronte divina sul tuo cuore, sul tuo cuore che è mio, che avrebbe dovuto esserlo per sempre! No, non voglio passare sopra le sue impronte!» (EI 280). Turbata, Juana riconosce nella sua gelosia febbrile l’emergere di un desiderio omoerotico. Inoltre, l’ambigua allusione alla fronte divina sembra suggerire, in effetti – o rinforzare – il desiderio. Questa è, precisamente, un’altra delle ossessioni che permeano la sua corrispondenza con Carlos. Così si riferisce, per esempio, a un’ex fidanzata di quest’ultimo, da tempo morta: «Sono appena rientrata dall’oratorio (...) Non ero sola; la nostra amata morta era accanto a me. La incontro sempre. Parliamo di te. Sono arrivata a credere che mi voglia bene. Questa notte mi ha detto con voce tristissima: Cerca di volergli molto bene Juana, per te per lui... e per me» (EI 294). Il triangolo sviluppato dal desiderio acquista una strana concretizzazione nell’enclitico: amalo (per me) e amalo (a lui). Inoltre, il nostra rinforza lo spostamento del motivo della sua gelosia – l’altra – a uno spazio erotico nel quale le distinzioni di genere diventano anfibie. A questo concorrono diversi fattori. In primo luogo, perché, essendo il soggetto maschile – e non la donna, come succede frequentemente – il membro conteso, questo lo pone per forza in un atteggiamento passivo che lo rende femminile. In effetti, nel racconto di Juana, Carlos si trasforma in un mero conduttore del desiderio femminile; è per suo tramite che il desiderio di lei si collega, si intreccia, con quello della sua presunta rivale. Inoltre, posto che quella rivalità è stata neutralizzata e rimpiazzata da un ravvicinamento amoroso tra Juana e l’altra – cosa che come abbiamo visto è dimostrata linguisticamente con l'uso dell’enclitico (in spagnolo più evidente: quiéremelo, ndt) – si può vedere con maggior chiarezza la componente erotica che sta alla base delle rivalità sprigionate dal triangolo amoroso. Infine, alla proibizione paterna e alla gelosia, si aggiunge la decisione di Carlos Pío di unirsi alla guerra di indipendenza. Vista la minaccia di separazione definitiva che questo poteva significare, per Juana il commiato di Carlos assume la condizione dell’impossibile come assoluto. Per questo dice a Carlos: «Se te ne vai, anche se tra mille uomini che combattono ci fosse soltanto una probabilità di morire, quella probabilità potrebbe renderti vittima. Se anche si sparasse soltanto un colpo quel colpo potrebbe toccarti» (EII 228). Ma qui neppure l’angoscia viene fuori allo stato puro; al contrario, il dolore ultimo emerge nella sua coscienza collegato al piacere: «Contemplo il panorama interiore, il quadro funebre che la mia immaginazione si compiace di mettermi davanti agli occhi» (EII 227). (Il corsivo è nostro). Sarà, pertanto, questo evento a liberare, in tutta la sua forza performativa, il gesto drammatico, teatrale, che sta alla basa di buona parte della corrispondenza di Juana. Cuba – la patria – riassume ora in sé le sue passate ansie: è, al tempo stesso, il padre autoritario (Pater, patria) che esige il sacrificio dei suoi figli, ed è, anche, la rivale (l’altra) con il cui amore non può competere. «La mia patria messa accanto a te è un granello di sabbia. (…) Per me sei più importante della mia patria». E aggiunge: «Sì, non devi dubitare! Lontano da me ti sentirai straniero ed espatriato, senza la tua Juana – vero? – non troverai la vera nozione di patria!» (EII 226-27). Nella lettera 194, quando ormai la guerra è arrivata a Puentes Grandes, lei si sente sotto esame, e interpellato il suo patriottismo, esclama:

Sei la mia patria. Ai miei occhi sei più importante di lei. (…) È venuta mia zia e ha passato la giornata parlando della… guerra. I suoi due figli partono domani e lei è così tranquilla! Il suo atteggiamento ha risvegliato nella mia famiglia un entusiasmo implacabile e ho creduto di notare nel suo sguardo un rimprovero muto, un interrogativo non formulato. Vedo arrivare qualcosa di tragico. Sono giorni che ho davanti agli occhi una visione funebre.

Non si sbagliava. Nel 1896, cioè un anno dopo dello scoppio della guerra, obbligati da motivi politici, i Borrero vanno in esilio. Juana attende, inutilmente, che Carlos Pío si unisca a lei a Cayo Hueso. Le sue lettere diventano sempre più incalzanti. Possiede sufficiente lucidità per sapere che la fine è vicina. Il 27 gennaio 1896, scrive a Carlos: «Ancora non ho ricevuto una riga tua da quando sono arrivata. (…) Poi, alla mia tristezza si unisce la triste convinzione del mio male fisico che cerco di nascondere alla mia famiglia con grande attenzione… (…) Ieri notte credevo di morire. La febbre che non mi passa mai, è aumentata con l’esaltazione dell’insonnia. (…) Sono più che convinta che mi resta poco da vivere» (EII 272 - 3).

Molto malata e senza la forza di tenere in mano la penna, Juana detta i versi della sua Ultima rima. Il 9 marzo 1896 muore a Cayo Hueso. L’anno successivo, il 24 dicembre, Carlos Pío, che aveva raggiunto il grado di tenente colonnello, muore nei campi della rivoluzione.

 

(Da: Francisco Morán, La pasión del obstáculo. Poemas y cartas de Juana Borrero, StockCero, 2005)

Traduzione di Gordiano Lupi – Parte III


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