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Marco Cipollini: L'arte dell'imitazione (II). "Vides ut alta" di Quintus Horatius Flaccus
16 Febbraio 2009
 

Reciso e (come sempre) saggio il Manzoni: “Orazio non si traduce”. Ma la Saggezza per un traduttore, e per di più imitatore, è Dea da non venerare: la più castrante che ci sia. Orazio. Appare così moderno, e invece è il più classico, ovvero il più remoto dalla sensibilità di oggi, sbrodolona e soggettiva. Lingua e forma: essenzialità assoluta. Concentrazione e leggerezza sbalorditive. Distacco e partecipazione di una poesia quando ancora era modus vivendi e non mera letteratura. Difficoltà inevitabile: far dire a Orazio quanto in lui è sottinteso – potenza del latino – in sillabe e in sintassi addensate come un brillo di sale.

   Taliarco, chi era costui? In una vecchia traduzione mi limitai, al pari di molti, a riproporlo come voce onomastica; ora aderisco ai pochi i quali vi leggono una nobilitazione grecizzante del rex convivii, dell’arbiter bibendi. Forse un ospite ancor giovane (puer). Traslare in italiano dal latino fa gonfiare la frase, e poi la proverbiale pregnanza di Orazio in qualche modo va sciolta; così, per non morire in uno stillicido di lacrime, ho dilatato la strofe alcaica in tre dodecasillabi e un endecasillabo, una struttura però più lenta dell’originale. Nella dizione siano recuperate le cesure, piuttosto irregolari.

   Mi piace riportare un episodio diffuso tempo fa da vari quotidiani. Patrick Leigh Fermor, grande scrittore inglese ed eroe della seconda guerra mondiale, fu incaricato nel 1941 di rapire il generale Kreipe, comandante dell’esercito tedesco a Creta, e con i coriacei partigiani ci riuscì. Ricordo ancor bene il film trattone, di Stanley Moss, Colpo di mano a Creta, nel quale la parte di Fermor era interpretata da un impeccabile Dirk Bogarde. Una notte per il gran freddo (geluque acuto!) Fermor finì con il prigioniero sotto la medesima coperta. Lasciamolo parlare: “Ci siamo svegliati tra le rocce, mentre il sole spuntava dietro la cresta dell’Ida, verso la quale eravamo saliti per due giorni interi. Ci siamo messi a fumare insieme in silenzio, e a un certo punto il generale ha cominciato a recitare, scandendo bene le parole: ‘Vides ut alta stet nive candidum / Soracte…’ Ero fortunato. Si trattava dei primi versi di una delle poche odi di Orazio che conoscessi a memoria. Così ripresi da dove si era interrotto lui: ‘…nec iam sustineant onus / silvae laborantes geluque / flumina constiterint acuto’. E così via, per tutte le cinque strofe che mancavano alla fine. La guerra per un momento sembrò lontanissima”. Era questa la cultura condivisa dalle classi dirigenti di quell’Europa che stava andando allo sfascio totale. Mentre ora, che è unita… Meglio tacere.

  

 

 

QUINTUS HORATIUS FLACCUS

(65 a.C. – 8 a.C.)

 

Dal Libro I delle odi, IX.

 

                 Ad Thaliarcum

 

Vides ut alta stet nive candidum

Soracte, nec iam sustineant onus

silvae laborantes, geluque

flumina constiterint acuto.

 

Dissolve frigus ligna super foco

large reponens, atque benignius

deprome quadrimum sabina,

o Thaliarche, merum diota.

 

Permitte Divis cetera. Qui simul

stravere ventos aequore fervido

deproeliantes, nec cupressi

nec veteres agitantur orni.

 

Quid sit futurum cras, fuge quaerere, et

quem Fors dierum cumque dabit, lucro

appone, nec dulces amores

sperne, puer, neque tu choreas,

 

donec virenti canities abest

morosa. Nunc et campus et areae;

lenesque sub noctem susurri

composita repetantur hora,

 

nunc et latentis proditor intimo

gratus puellae risus ab angulo,

pignusque dereptum lacertis

aut digito male pertinaci.

 

   

 

 

INVERNO E GIOVINEZZA

 

                                    Al re del convito

 

Come candido, guarda, per l’alta neve

si èleva il Soratte ed esausti ormai i boschi

non ne sostengano il peso e per il crudo

gelo si sia fermato ogni torrente.

 

Sciogli il freddo, re del convito, sul fuoco

scialando legna e mesci più generoso

dalla brocca sabina vino nostrale,

ma che sia bello schietto e di quattr’anni!

 

Lascia il resto agli Dei: non appena infatti

il contrastar dei venti placano sulla

schiumante vastità del mare, gli anziani

orni e i cipressi, anch’essi, trovan quiete.

 

Del domani non chiederti, ma ogni giorno

concesso dal Fato segnalo a guadagno;

né sdegnare, ragazzo mio, le dolcezze

d’amore né le danze, fino a quando

 

non ceda il tuo vigore all’acre vecchiaia.

Tempo è per te del campo Marzio, e all’aperto

sul far della sera, all’ora convenuta,

si ripetano i teneri bisbigli…

 

e lei, che si nasconde dietro un cantone,

sia tradita, a vederti, dal fresco riso:

per domani un pegno le sforzi dal polso

o dal dito, che più non ti resiste.

 

 

www.webalice.it/marcocipollini

 


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