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Amos Oz, D’un tratto nel folto del bosco.
03 Aprile 2006
 

Se d’un tratto, svegliandoci una mattina, ci accorgessimo di aver smarrito le nostre scarpe e con esse i rami degli alberi, le persone che ci hanno amato e le persone che amammo e scoprissimo che qualcosa o qualcuno li ha rapiti e portati via; obbligati a vivere senza di loro, come cambierebbe la nostra vita? E se d’un tratto venisse a mancare il letto su cui siamo stati abituati a riposare, smetteremmo di parlare del sonno e dei sogni? Se d’un tratto, per magia, i luoghi dell’infanzia si alzassero, scoprendo la terra umida, e come sorretti da piccole zampine si muovessero per andare via, separandosi per sempre dai luoghi degli adulti, salutandoci con un addio. Se d’un tratto la necessità di amare diventasse superflua o la gioia noiosa, ci trovassimo sprovvisti di lacrime e di sbadigli e non dovessimo più sbattere le ciglia per rinfrancare gli occhi, se parlare di sé diventasse volgare e i colori e la musica banali, cosa accadrebbe? Se fossimo d’un tratto privati di un solo, qualunque, piccolo, abituale particolare della nostra vita, come reagiremmo? Come accade nel paese immaginario di Amos Oz, molti finirebbero per dimenticarsene e molti altri inizierebbero ad aver paura, ma non tutti. Altri fingerebbero di non saperne nulla, alcuni ne morirebbero, pochi, pensandoci di nascosto, diventerebbero strani, come i poeti, e additati dagli altri come “strani” vivrebbero in solitudine. Pochi lo andrebbero a cercare: i rivoluzionari.

Seppure sembri immaginaria, questa è una storia vera: «Tutto era cominciato tanti, tanti anni prima che i bambini del paese nascessero, i tempi in cui persino i loro genitori erano ancora piccoli. Nello spazio di una notte, una qualunque notte piovosa d’inverno, tutti gli animali erano spariti dal villaggio (…) Da quel giorno restarono solo gli uomini. Per qualche giorno la gente aveva badato bene a non guardarsi negli occhi. Per diffidenza. O per sconcerto. O vergogna. Da allora in poi si cercò di parlarne il meno possibile. Né bene né male. Non una parola. Ogni tanto ci si dimenticava persino del perché, in fondo, fosse meglio dimenticare. Ciononostante, tutti ricordavano molto bene, ma in silenzio, che era meglio non ricordare. E c’era come il bisogno di negare tutto ciò, di negare persino quella stessa omertà e ridere di chi invece ricorda: che tacesse! Che non parlasse!»

Ingenuamente potente, D’un tratto nel folto del bosco di Amos Oz – pubblicato da Feltrinelli –, affronta l’incompiutezza dell’esistenza umana, non finita, nella sua più naturale realtà, riflettendo sui modi adattati per affrontare la percezione della mancanza: crudeltà, alienazione, senso di colpa, ricerca, vergogna, menzogna, compassione, rabbia, paura, speranza, desiderio, ribellione. Un favoloso tracciato della natura umana in tutte le sue sfaccettature e un acuto e perspicace trattato socio-ontologico da cui è difficile non percepirne i richiami alla violenza, alle forme di potere della sottomissione, della segregazione, della massificazione-adeguamento e della censura che hanno intriso il secolo scorso, questi anni e questi giorni.

Così Amos Oz con D’un tratto nel folto del bosco ci sprona a dubitare e sperare, a cercare. A cercare le Verità oltre la verità apparente, votata da tutti e lascia uno specchio da cui poter vedere quanto si è abbrutito il nostro volto nel tentativo di poter a tutti i costi soccorrere a questa profonda e generale piaga della “Mancanza”. Ogni lettore troverà tra le pagine scritte da Oz il proprio vecchio volto e con esso i cenni nuovi e tumultuosi di Maya e Mati, i due bambini sovversivi, protagonisti del romanzo che, partendo alla ricerca degli animali perduti, troveranno Nimi, il bambino cacciato e deriso da tutti, fuggito dal villaggio e Nehi, il demone del bosco, verità semplici e segreti svelati, ma soprattutto un modo diverso di vivere da insegnare. «Parlate loro. Parlate a quelli che offendono e anche a quelli che tormentano e a quelli che sono contenti di fare del male agli altri. Parlate, voi due, a chiunque sia disposto ad ascoltare. Cercate di parlare persino a quelli che prendono in giro voi, che non vi degnano che del loro disprezzo. Non badateci, continuate a tentare di parlare. Finché un bel giorno, chissà, forse gli animi cambieranno e noi scenderemo dalla montagna (…) anche noi potremo uscire dal folto del bosco e tornare al paese e vivere la nostra vita in casa e in cortile e nei campi e al pascolo e sulla riva del fiume, la mia sete di vendetta si seccherà e se ne andrà via da me come una muta di serpente, e noi lavoreremo e ameremo e andremo a spasso e canteremo e suoneremo e giocheremo e parleremo, senza predare e senza essere preda e anche senza farci beffe l’uno dell’altro. Adesso andate in pace. E non dimenticate. Nemmeno quando sarete grandi, adulti, e forse anche genitori, non dimenticate».


Manuela Piccolo


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