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Le pagine non tiepide o scontate di Raul Montanari 
Intervista di Alberto Figliolia
17 Aprile 2010
 

Difficile inquadrare, sempre che sia lecito etichettare uno scrittore intrappolandolo in un genere prefissato, Raul Montanari. Non lo possiamo definire un autore di noir, e neanche di post-noir, né un “cannibale”. Semplicemente, lui ha una cifra troppo caratterizzata e personale. Talento versatile, occupandosi anche di traduzioni (dal greco, dal latino, forte di studi classici, e dall'inglese), stilando saggi e avendo scritto poesie (Nelle galassie oggi come oggi. Covers, a sei mani con Tiziano Scarpa e Aldo Nove), è tuttavia noto soprattutto per l'attività di narratore.

51 anni compiuti in gennaio, il suo esordio letterario è datato 1991, con Il buio divora la strada, cui nel corso del tempo sono seguiti, in una produzione contrassegnata sempre da estrema originalità e capacità e voglia di ricerca, titoli quali La perfezione, Sei tu l'assassino, Dio ti sta sognando, Un bacio al mondo, Che cosa hai fatto, Chiudi gli occhi, La verità bugiarda, È di moda la morte, L'esistenza di Dio, La prima notte, Strane cose domani. Sono dieci romanzi e due raccolte di racconti. Invero la bibliografia comprende altri lavori, comprese svariate curatele.

Di certo le sue pagine non sono tiepide o scontate, non lasciano insensibili, anzi ti prendono la testa e ti colgono emotivamente, ti spiazzano, pongono dubbi, ti costringono allo scavo interiore. Non v'è dubbio alcuno sulla sua superba abilità nell'incatenare il lettore alla narrazione, in un processo d'immedesimazione sentimentale che solo ai grandi autori è dato di creare.

Incontro Raul Montanari a casa sua, in un classico pomeriggio milanese, indeciso il cielo se indossare un manto azzurro o una blanda cappa lattiginosa. Stava scrivendo a una sua lettrice e mi prega di concedergli il tempo di terminare la battitura della risposta; le dita corrono veloci sulla tastiera del portatile. È rilassato, tranquillo, sicuro, garbato. Ora è libero, parliamo di comuni amici, liberiamo atmosfera, quindi si può iniziare l'intervista ufficiale.

Nei tuoi libri compare una Milano molto precisa dal punto di vista topografico, ma anche molto visionaria, talvolta stralunata e allucinata, ma vivissima. Quanto corrisponde questa città letteraria ai paesaggi dell'anima?

Considero Milano una città orribile e in ciò divergo dal mio amico Gianni Biondillo. Arrivo a dirti, anche se non sono un viaggiatore, che non ricordo una città più brutta di Milano. C'è poca bellezza esibita esteriormente, in questo essendo molto borghese. C'è il fatto che è una città costipata, stretta, piccola. Questo di per sé non sarebbe un male se non fosse la grande Milano! Ma sono costretto a volerle bene, poiché qui sono le mie radici. Ho avuto la possibilità di andare a vivere a Berlino, ma ho rifiutato e sono rimasto. È una città molto dura, in cui non viene coltivata la socialità; per vivere la socialità devi entrare in posizioni predeterminate. Non c'è la cultura del caffè in cui sia possibile parlare, lo notava anche Hemingway che diceva che l'impressione è che tutti i milanesi vadano in un posto preciso. Il dato affascinante è che è una città letterariamente perfetta, un luogo dalle possibilità infinite, estremamente imprevedibile; da dietro l'angolo può uscire di tutto: l'amore della tua vita, un cane senza occhi, chi ti accoltella. Quando una città ha poca grazia, ha anche poca distrazione dall'elemento umano: Milano è brutta, ma i milanesi sono bellissimi e qui si trovano le donne più belle d'Italia”.

Da ricordare che Montanari è originario di Bergamo, ma è arrivato a Milano che era bambino.

Che cosa hai fatto è un libro fortissimo, assolutamente controverso e geniale, un pugno nello stomaco, un viaggio agli inferi. Quanto ti è costato in termini psicologici?

Tantissimo. È stato scritto in prima stesura nel '91 e ho impiegato dieci anni a trovare un editore. È stato rifiutato da Feltrinelli, quattro volte, da Einaudi, da Bompiani, da Garzanti. Dicevano che era illeggibile. Giuseppe Pontiggia diceva che il giudizio editoriale è spurio. Nessuno ha detto: “È troppo forte”. Dicevano che era brutto. Ed è stato all'origine della mia rottura con Giovanni Testori. Il mio primo romanzo stava per essere recensito da Testori che era già malato di cancro. L'esito della lettura de L'ultima decade (primo titolo di Che cosa hai fatto) lo indusse a revocare, per “l'orrore”, anche la recensione che stava preparando per l'altro libro. Questo libro fa molta paura non per le scene erotiche e di violenza, ma per un motivo sottile: il protagonista è uno come noi, non è connotato diversamente da quel che noi siamo, e ha un io molto invasivo dell'io del lettore. Fa paura e fa soffrire la sua sofferenza: è spaventosa, e riguarda molto il lettore maschio, una sorta di effetto da Arancia meccanica. Per una lettrice donna c'è invece un senso di straniamento che esclude l'aggancio emotivo. Questo romanzo mi ha procurato un sacco di guai, compreso il rifiuto da parte di alcune testate di recensire i miei libri. Soltanto adesso uno di questi giornali, di cui non faccio il nome, ha smesso l'embargo nei miei confronti. Eppure Che cosa hai fatto è il mio libro più recensito in assoluto, anticipatore: vedi i Black bloc, che compaiono profeticamente in una scena di piazza. Ed è stato come la fotografia di un millennio partito male: nella storia compaiono visioni di un colpo di stato militare, anche se non è questo il mio vero timore; con la possibilità di manipolare l'opinione pubblica, è come se fossimo in un colpo di stato morbido. Del resto io penso che un romanzo abbia il compito di rappresentare la realtà ingrandendola seppur deformandola. Per quanto riguarda il libro, mi affascinava il parallelismo fra la rovina sociale e quella interiore, individuale. Il protagonista cammina fra le macerie della sua vita e quelle di Milano. La figura femminile, Beatrice, è un simbolo: lei lo porta in paradiso. Il paradiso del sesso... e il sesso ha un lato infernale: in fondo al sesso non c'è nulla, il catalogo delle possibilità si esaurisce e alla fine ci può essere solo la morte. Come una macchina, un motore che si ferma, e si può solo tornare a piedi, sconfitti, nella vita. Perché lui non si uccide? Per un motivo banale: perché alla fine scopre di avere ancora i soldi che credeva di aver speso nel suo folle volo”.

Una risposta articolatissima, colma di occasioni e spunti di riflessione.

Qual è il tuo metodo di lavoro?

Rigoroso. Faccio una prima stesura, che mi porta via due mesi, generalmente marzo e aprile. Considero egualmente importante la preparazione e la scrittura. In marzo faccio una precisa scalettatura, scena per scena, di quello che deve accadere e predispongo le schede complete dei personaggi dei quali devo conoscere più di quanto sappia il lettore. Ho una scheda tipo di ventidue punti, compresa la musica che ogni personaggio ascolta, come dorme, come mangia, quali sono i suoi miti. Faccio anche uno schema temporale e dei luoghi. In aprile mi concentro sulla scrittura arrivando anche a fare 300-400 pagine. Dopo che ho scritto lascio riposare il tutto fino all'estate. Poi faccio un paio di revisioni”.

Possiamo parlare di un segreto della scrittura?

Il segreto della scrittura è il conflitto. Ogni singola scena difatti dovrebbe avere una valenza conflittuale”.

È vero che scrivere è un piacere che confina con una fatica immensa?

La scrittura è dolore spaventoso, follia”.

Un paradosso? Fino a un certo punto.

Chi sono, se vi sono, i tuoi maestri letterari?

Distinguiamo fra eroi e maestri. Eroi sono tutti quelli che non ho conosciuto: Poe, Kafka, T. Mann, Borges, Calvino, Moravia, Dürrenmatt, Shakespeare, Seneca. I maestri: fra gli altri, Testori, Busi, Pontiggia”.

Quanto è difficile vivere di scrittura?

Non così tanto. Oltre ai diritti d'autore dai romanzi che uno ha in circolazione, intorno alla scrittura si può sviluppare un indotto: scritture occasionali, articoli e racconti, seminari, serate, reading, corsi di scrittura creativa”.

I protagonisti delle tue storie sono sovente dei marginali, almeno in apparenza, o comunque persone non omologate, anticonvenzionali, degli straniti cinico-romantici, e la normalità a volte appare più mostruosa della devianza. Ma viviamo in un consorzio sociale dove i mostri pullulano?

Meno di prima. Gli individui sono meno caratterizzati. C'è molta più omologazione. Soprattutto a livello del linguaggio”.

Risposta sibillina? Forse l'autore vuole dirci che è il conformismo a prevalere. Anche il conformismo e la massificazione possono essere mostruosi.

Rimaniamo a parlare ancora un po' nella sua casa quasi spartana ma di gusto, sobria ma con l'impressione di tanto spazio e con tanti libri e CD. In sottofondo l'amato Duke Ellington.

Quando vado via, mi abbraccia e bacia, salutandomi come un vecchio amico.

Un autore e intellettuale coraggioso, artefice di una scrittura che sempre coinvolge e spesso fulmina. Un uomo gentile.


Alberto Figliolia



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