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Vetrina/ Maria Lanciotti. Borgata Mondo 
Poemetto tradotto dal testo originario “Rióne Munnu” in dialetto sublacense
10 Aprile 2020
 

I

La credenza zoppica,

pure i tarli hanno smesso

di rosicchiare.

Potrebbe servire

per il fuoco, ma tanta legna

sta già marcendo nel capanno.

 

E tu ancora a stroncare castagni

nel boschetto dove un tempo

raccoglievi funghi.

Porcini e galletti.

Poi solo famigliole sui ceppi

e lingue di bue sui tronchi vivi.

 

Di colpo, come i funghi,

scomparve pure la neve

che non si vide più cadere

d’inverno.

E tu sempre con la scure

in spalla

in giro per la macchia.

La cesta dei funghi

appesa

al porticato.

E il camino che non tirava.

 

I gatti continuavano

a figliare,

non entravano più nella cuccia.

Tu arrangiasti un riparo di legno

e stracci, per le nidiate.

Le zuffe notturne

ci tenevano svegli.

Soffi e ringhi ma tu dicevi

è la tramontana”.

Sparivano i cuccioli

e la gatta ammattiva.

 

La primavera tardava.

Anch’essa impazzita.

Le gemme non sapevano che fare:

spuntare o non spuntare?

e dormivano fino

a morire.

Poi in un baleno fiammeggiò l’estate

e arse

feroce

la linfa d’ogni pianta e la nostra.

 

I gatti sonnecchiavano

pigri,

lenti e vuoti passavano i giorni

e la notte si trascinava

malinconica

senza lotte e senza amori.

 

E arrivò l’autunno smorto

spoglio di oro e di frutti:

anche le castagne sparite

come i funghi

e la neve.

 

Passò un giorno un girovago

che andava di collina in collina.

Sedette e divise il pasto con noi.

Ci avvinse con le parole

e il canto a distesa,

con lo sguardo

trasognato

del viaggiatore curioso.

Pioveva.

Tu ravvivavi il fuoco

sprigionando scintille.

Gufi volavano

torcendosi

nei tuoi occhi

umidi.

 

Anche la madia va in polvere,

ma conserva l’odore

del pane.

Il telo che avvolgeva

l’impasto

è rimasto nel fondo

col sentore della lavanda.

E si apprestano gli alberi

a rifiorire.

 

 

II

Non si poteva credere,

quando se ne parlava.

Abbattuti steccati

e divisioni ancestrali

avremmo mangiato

tutti

lo stesso pane

e osservato

la sola Legge che conta:

volersi bene.

Il sogno di Cristo.

 

Ai piedi del paese

devastato dall’insania bellica

il mondo cominciava

col pascolo

e finiva con la ferrovia.

Sparse

c’erano le casette

di mattoni

e baracche di bandoni,

lo sterrato

tracciato dal passaggio

di animali

biciclette

e scarponi,

e dai giochi dei bambini

senza giocattoli.

 

Le buche erano

d’inverno

caverne lucenti

dove ficcare lo sguardo

a caccia di tesori

nascosti,

succhiando bocconi di ghiaccio,

soffiando sulle mani

trafitte

dal gelo.

 

Il giardino

di Marietta

era sempre in fiore,

il più bello fra tutti

di quel mondo stretto

tra il pascolo

e la ferrovia.

Marietta annaffiava

e vigilava,

che nessuno allungasse la mano

per cogliere una sola foglia

del suo giardino

proibito.

Ma c’erano i roseti

selvatici

ch’esplodevano a maggio

illuminando l’aria

del candore

dell’Immacolata.

 

Gli orti si spandevano

attorno alle case,

le schiene rotte

dalle fatiche

ai cantieri e alle fabbriche,

si curvavano a sera

per ammansire la terra

col sudore

e l’acqua piovana.

Si raccoglievano i frutti

come manna

che colasse dal cielo.

 

Tirava sempre il vento.

Volavano i semi

insieme agli uccelli,

le api s’ingozzavano

di nettare

e ronzavano fitto tra loro

sciamando.

I canti si spegnevano al calare

del sole

poi arrivava l’ora dei racconti.

 

Tutti i padri avevano fatto

la guerra,

in trincea o nelle miniere.

La guerra delle madri

era tutti i giorni,

a combattere con la fame dei figli

e gli strappi da rammendare.

E il camino

tappato,

e quelle nuvole nere

che s’ammassavano

quando loro stendevano i panni.

 

Si aspettava il Natale per piangere

di letizia

al cospetto del Bambinello.

Ma del Natale sbiadiva il senso

e presto sparirono mangiatoie

e stalle

con i buoi e gli asinelli.

 

E non splendeva la stella.

 

Si tenta nella babele

un approccio almeno con se stessi.

Per chiedersi se è questa

la Borgata Mondo

senza catene e cancelli,

se è questo il pane quotidiano

da spezzare insieme.

Nei rifugi di cartone,

sui barconi carichi di vita

e di dolore,

sulle strade dell’esodo,

dietro l’angolo di casa,

ovunque,

ogni giorno nascono

creature

ma non si rompono noci

come a Natale.

 

 

III

Vado cercando

qualcosa

che ho perduto

o forse sperperato.

Ma non le ho messe

in tasca

le lacrime che ho

pianto.

Le cerco in ogni dove

per evocarne altre

e allentare

l’artiglio del cuore.

 

Smarrita la fantasia,

si contano i passi

circolari

nel recinto

murato.

Radici asfittiche

s’abbarbicano

al filo spinato.

 

Ribolle la terra

delle speranze

affossate.

Issati sui merli

gli spauracchi

del niente.

Ritrovare il filo incessante

del tempo,

i suoni mai prima

raccolti.

 

Din don din don

din… don…

din…

 

Una casetta su alla rocca

una stanzetta e una scaletta

un lettino sottotetto

una ruota di bicicletta.

Il tocco delle campane

lo zoccolare dei somarelli

il sole che s’affaccia

al risveglio dei galli.

 

E quel bosco

di fragole

e lucertole,

il riso della sorgente

dove specchiarsi,

l’odore caldo della paglia,

il bagliore delle stelle.

La luna guarda e sbadiglia

insonne

della terra innamorata.

 

Ecco che torno alla quiete

dei monti,

al vociare del fiume,

al frusciare dei pioppi.

Tace qui lo strepito

delle lotte assassine

nei fossati dell’odio e della pena,

e cantano le radici

del sangue

i greti fioriti

dei fossi,

l’allegria dei campi

seminati,

lo stridere d’ossa

dei vecchi

mai stanchi.

 

Un fiore vive d’acqua

e di luce

e quando appassisce

si fissa col suo profumo

nella memoria.

Nei liberi pascoli

ogni fiore che muore

si rigenera.

 

Eccolo, arriva,

scintillando fra le ragnatele

il pianto della notte

che lucida l’erba

e illumina la mente.

È come un canto

senza voce,

dolce,

una luce che s’alza e diffonde

con il sole,

un brivido

una ventata d’aria pura

che m’afferra e trasporta

al tempo fruttuoso

delle annate a venire.

 

Nella tasca del cuore

conservo i semi

e un pugno di terra.

E l’odore

della primavera.

 

Maria Lanciotti

(Rióne Munnu / Borgata Mondo, Ed. Cofine 2018,

Premio Città di Ischitella Pietro Giannone 2017)


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