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Marisa Cecchetti. “In Colombia con Gabriel Garcίa Márquez” di Alberto Bile Spadaccini
14 Luglio 2021
 

Alberto Bile Spadaccini

In Colombia con Gabriel Garcίa Márquez

Senza forze di gravità

Perrone, 2021, pp. 179, € 15,00

 

Quando si arriva all’ultima pagina di questo viaggio nella terra di Gabriel Garcίa Márquez, si sente il desiderio di ripescare dalla libreria tutti i suoi libri disponibili, non importa se sono stati già letti due volte, a età diverse.

Il fatto è che Alberto Bile Spadaccini, fantastico scrittore di viaggi, ci porta in Colombia, a cominciare dalla città dove Márquez è nato, e lo segue passo passo per tutti i luoghi della sua vita, in patria e all’estero, anche in Europa ed in Italia, instancabile e curioso viaggiatore qual era, nella sua qualità di giornalista e scrittore: “Fin dagli anni da studente a Zipaquira, e ancor di più in quelli da giornalista sulla costa e a Bogotà, l’equazione è semplicissima: più conosce, meglio scrive. Più Colombia, migliore letteratura. Per scrivere degli angoli dove non ha messo piede, interroga a destra e a manca: una volta riempito il serbatoio, prima o poi lo sverserà in parole”.

Conosciamo Sucre, Bogotà, che per García Márquez è spesso e volentieri “tetra, incubo del passato, città di infedeli”. La prima scena che vede nella capitale, ancora adolescente, è un funerale con carrozze gotiche e paramenti: “le famiglie perbene si sentono inventrici della morte”. Conosciamo il Caribe, che non sa di avere il mare vicino, dove le madri “avvisano i figli emigranti: occhio agli effetti dell’altitudine sul cuore, all’ambiguità della gente, alla polmonite, alle ingiustizie del centralismo”. Conosciamo Barranquilla, che “non è tanto quella dove visse pochi anni da ragazzino con la famiglia povera di soldi e ricca di fratelli, ma la mia prima Barranquilla da adulto nel paradiso dei suoi bordelli”.

La narrazione procede in un accostamento di citazioni letterarie e racconti personali, dove talora si perde la linea di confine, piacevolmente. Anche la percezione del tempo cambia perché “non a caso nel Caribe colombiano gremito di afro-discendenti… gli africani autoctoni… intendono il tempo in modo completamente opposto. Per loro si tratta di una categoria molto più flessibile, aperta, elastica, soggettiva. Di questo tempo è ammantata Macondo. Di domeniche vuote e interminabili, di giovedì che diventano una “cosa fisica e gelatinosa”, di giorni che spariscono, di lunghe sieste mentre tutto si impolvera e si guasta”.

Gabo decide da giovanissimo, nell’editoriale El chaleco de fantasía, che il tempo da adottare è “quello veridico e irrazionale della favola e non l’arbitrario reticolo dei calendari”. L’importante è che i luoghi “inizino a nascere”. Del resto Ahoritica: significa a momenti, ed è molto usato dai colombiani, ma si dà il caso che sia “una diabolica unità di misura: a seconda di insondabili intenzioni vuol dire fra cinque minuti, tre ore, dieci giorni, un mese. Si inceppano gli ingranaggi del tempo”.

Nel seguire Márquez, che faceva della realtà conosciuta un pezzo giornalistico, o la conservava per i romanzi, siamo dunque catapultati in mezzo alle pagine dei suoi libri, dove la realtà effettiva si trasformava fantasiosamente in realtà magica, tesa al punto da deformarsi fino ad apparire surreale.

Macondo si riscopre in tante realtà attuali - sembra che niente sia cambiato - e i personaggi maschili e femminili sono la proiezione del pensiero di Márquez su una situazione sociale, politica, economica, che lui criticava aspramente, dove la corruzione, le divisioni, le sanguinose repressioni, i diritti calpestati, i poteri governativi e la guerriglia, la mancanza assoluta di pace, l’isolamento, la miseria, erano una costante, e purtroppo rimangono le caratteristiche di un paese tanto bello quanto instabile.

García Márquez esprime la propria nausea per la Colombia della vuota retorica, della censura, del razzismo, della nobiltà, del branco, della destra”. Infatti “Macondo oltre che susseguirsi di grotteschi aneddoti, è anche massacro, stupro, guerra civile. Non è un caso che il suo autore la faccia spazzare via dal vento. In Colombia, molto spesso, il termine “Macondo” è usato con un sospiro di rassegnazione, quando ad esempio si viene a sapere dell’ennesima storia di violenza e abbandono”.

Tuttavia “spesso non si pensa alla fine di Macondo, si sottovaluta il fatto che Macondo venga distrutta. García Márquez distrusse Macondo, considerò che quelle stirpi non meritavano di vivere, perché non sapevano amare, perché non erano solidali. Noi continuiamo a costruire una Macondo mitica, ma ci è già stato detto che bisognava distruggerla. Tanto gli uomini quanto le donne macondiane. Non bisogna permettere che altre bambine siano date in spose appena hanno il ciclo, o che il marito violenti la moglie. García Márquez ha costruito una torre gigantesca, ma poi l’ha distrutta”.

Del resto, così come Macondo, anche quella colombiana è una cultura della violenza, dove abbiamo appreso a suon di botte a difendere il diritto di qualcuno a imporsi con la forza, e a colpevolizzare le vittime perché “hanno provocato”.

Si è fatto un viaggio - scrive Bile Spadaccini - in compagnia di un uomo che, ossessionato dalla morte, provò a vivere con infervorata concentrazione; che, tuttavia, riconobbe spesso la felicità solo quando era già nostalgia; che espanse i confini geografici e storici del suo mondo fino a confonderli; che memorizzava, romanzava e raccontava storie per farsi voler bene dai suoi amici; che si mise nei guai con il potere e non poté tornare a casa; che conobbe così bene il potere da rifiutare case ovunque; che odiava viaggiare e dal viaggio fu redento; che capì in tempo di essere destinato a tutto questo, e che avrebbe potuto sopportarne il peso solo ridendoci su.

Omerico anfitrione è stato per noi un bambino di Aracataca – scrive Bile Spadaccini – ci ha presi per mano e condotto in un Paese di cui è impossibile tracciare i confini, da cui arrivano gli echi di battaglie irrisolte, e in cui si ha sempre voglia di tornare. Questo Paese, ci si creda o no, si chiama Colombia”.

 

Marisa Cecchetti


 
 
 
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