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Renata Adamo. “La strada” di Cormac McCarthy
26 Aprile 2010
 

Arrivò a credere che nella storia del mondo forse c’era più castigo che delitto ma non ne trasse grande conforto… (La strada, p. 26)

 

Nella scrittura di Cormac McCarthy (foto) la parola torna ad essere quella che dà i nomi alle cose, agli esseri senzienti e non senzienti, a tutto quello che ci circonda. È il medium tra l’uomo e l’universo o, per chi vi crede, tra l’uomo e Dio.

Da questo punto di vista, non vedo differenze nel suo lavoro narrativo, sia che si parli della trilogia della frontiera costituita da Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura, o del grande affresco selvaggio di Meridiano di sangue, oppure dell’opera appena precedente a La Strada, che ha per titolo Non è un paese per vecchi.

Né mi convince chi vede nelle opere che si sono via via susseguite nella produzione dello scrittore, un disegno unitario, un progetto.

La fonte di tutta la sua narrazione va ricercata, a mio avviso, in un’intensità d’ascolto che per divenire parola esige la più assoluta attenzione. Non vi è dunque alcuna progressione temporale nell’opera letteraria di McCarthy, alcuna architettura, quanto piuttosto l’esito di quell’ascolto. Se poi il risultato della sua acutissima percezione acquista un disegno unitario, ciò significa che quel disegno e non un altro, lo scrittore, resosi ormai quasi solo strumento, doveva tracciare. E volendo poi unire tutti i punti di quel tracciato, esso non ha forma di freccia o di retta, quanto piuttosto quella di un arco, di un cerchio non concluso, che lascia spazio a nuove, impensabili narrazioni.

In nessun altro modo posso spiegarmi un’opera come La strada, poiché dopo aver narrato la post-apocalisse, cos’altro è ancora possibile dire?

Una grande scrittrice come Djuna Barnes, oggi poco letta, pone in un suo piccolo libro, una domanda che mi è spesso affiorata alle labbra, leggendo le opere di McCarthy.

Chiede la Barnes:

Sentinella, a che punto è la notte?”.

A che punto è la notte nella narrazione di McCarthy?

Questa domanda è ancora possibile nel romanzo Non è un paese per vecchi. In quest’opera, che è un dialogo pressante tra esseri umani affetti da totale autismo morale, l’ambiente o il contesto sono un dettaglio del tutto secondario. Non vi è più la Natura lussureggiante e feroce che viene descritta nei romanzi precedenti. Paesaggi da togliere il fiato per la loro insostenibile bellezza, cieli e tramonti sotto i quali gli uomini operano secondo il dettato della legge e della storia ma mai della bellezza. Uomo e creato scissi, l’un l’altro indifferenti e nemici. Grande è la potenza di McCarthy nell’esprimere ad ogni passo della trilogia e altrove, questa scissione, preludio della notte che verrà.

 

Di giorno il sole esiliato gira intorno alla terra come una madre in lutto con una lanterna in mano…

Bambino: Tu sei coraggioso, papà?

Uomo: insomma, così, così…

Bambino: qual è la cosa più coraggiosa che hai fatto oggi?

Uomo: alzarmi da questo posto.

 

Nella post Apocalisse di McCarthy la natura è ridotta a relitto. I colori sono quelli del grigio e del nero. Ovunque, nell’aria, svolazzano e si posano pulviscoli di cenere. L’atmosfera di questo mondo alieno è fredda. Ogni luogo, se ha senso parlare di luoghi, è inospitale. Sulla strada, procedono, superstiti del mondo distrutto, un Uomo e un Bambino, rappresentanti di tutti gli uomini e di tutti i bambini. Sono diretti verso l’oceano dove l’uomo spera che un barlume di sole e di calore ancora sussista.

L’uomo e il bambino fanno delle soste nel loro cammino. Davanti a un fuoco il padre lava suo figlio, gli scompiglia i capelli perché si asciughino:

Questo è mio figlio, disse. Gli lavo via dai capelli le cervella di un uomo. È questo il mio compito.

Tutto come un rituale antico. Così sia. Evoca le forme. Quando non ti resta nient’altro imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra… (La strada, p. 57)

Oltre all’Uomo e al Bambino vi sono altri sopravvissuti. Ombre che si manifestano come orrori improvvisi, figure terrificanti e mute, creature che non sono regredite alla natura selvaggia ma sono andate oltre la natura, rinnegandola e rinnegandosi.

Sono i cattivi. Così l’Uomo spiega al Bambino perché deve temere quelle carovane di creature che a tratti capita loro d’incontrare lungo il percorso. Creature rinnegate. Regredite alla condizione di rettile. Dedite all’antropofagia e a qualsiasi altra forma di orrore possibile.

E poi ci sono i buoni. L’Uomo e il Bambino sono buoni perché non mangiano le persone. Sono buoni soprattutto perché portano il fuoco.

Ci sono altri buoni, oltre loro? Sì, dice l’uomo, ci sono altri buoni e noi li dobbiamo trovare.

In sintonia con i miti più antichi, è sempre il fanciullo colui che salva. Al momento, ad esempio, egli è l’unico ostacolo che si frapponga tra l’Uomo e la morte. Dunque, l’Uomo ha il compito, compito che gli è stato assegnato da Dio, di proteggerlo, poiché se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato… (ib., p. 4)

Il Bambino non nasce in una stalla come il fanciullo dei Vangeli.

Bei tempi, quelli, dove i messaggi celesti piovevano da ogni parte, la stella cometa guidava i pastori, la natura si riprendeva la benedizione di esistere e così pure ogni altro essere del creato poiché il Salvatore era nato. Anche a lui era toccato di dover scappare dagli orchi della notte ma, diamine…! Accanto al fanciullo c’erano Maria, Giuseppe, tutti gli angeli del Paradiso, i pastori, il bue, l’asinello, i re Magi. Il Natale del mondo che esultava per la nascita del suo Salvatore.

 

Il Bambino della post-Apocalisse nasce in una casa di una città qualsiasi. Fuori, oltre le vetrate, si vedono bagliori di fuoco e devastazione. E la donna partorisce un figlio che vorrebbe immediatamente uccidere.

Partorisce in casa, con l’aiuto dell’Uomo che le fa luce con una torcia e usa una forbice per tagliare il cordone ombelicale.

Lui lava il bambino. “Questo è mio figlio”, dice.

I tre, una famiglia, ma non una sacra famiglia, si mettono in marcia, lungo la strada. La donna però non vuole procedere oltre. Non sopporta di continuare a vivere:

Se ne andò e la freddezza di quel commiato fu il suo ultimo dono. L’avrebbe fatto con una scheggia d’ossidiana. Gliel’aveva insegnato lui stesso. Più affilata dell’acciaio. Il taglio dello spessore di un atomo. E aveva ragione. Non c’erano argomenti. Quel centinaio di notti che avevano passato svegli a discutere sui pro e i contro dell’autodistruzione con il fervore dei filosofi incatenati alle pareti di un manicomio. L’indomani il bambino non disse nulla e quando furono pronti a rimettersi in marcia si voltò a guardare il punto in cui si erano accampati per la notte e disse: Se n’è andata, vero? E lui rispose: Sì, se n’è andata… (ib., p. 46)

Non si fa gran fatica a voler cercare simbologie in questa narrazione. Ma io credo che La strada non sia stata scritta con queste intenzioni. Certo, c’è una famiglia in fuga, ma non c’è nessun luogo dove andare, non una stella cometa che illumini il cammino, non una capanna per riposare. Tutto è stato cancellato. E quella che partorisce il figlio è la madonna di una notte che non si volge al giorno, dove ogni misericordia è impensabile, una madonna cieca di dolore, che non sopporta l’atrocità del nulla che ha davanti.

E se toccasse a lei dover uccidere il figlio perché non debba sottostare ad una morte orrenda?

Troppo vicina alla natura, la donna, per sopportare la vista della sua creatura che forse, già domani, non sarà più viva.

Tocca all’Uomo, a colui che ha fatto le leggi e la storia, e ha fallito, assumersi il compito di condurre il Bambino e con lui il fuoco.

I dialoghi che si susseguono lungo la strada tra Uomo e Bambino sono cristalli di luce purissima. Sono dialoghi semplici. Elementari. Ad uso principalmente del Bambino. C’è nell’asciuttezza di questo discorrere tra padre e figlio una quasi insostenibile potenza visionaria. Raccontare la post-apocalisse attraverso il dialogo elementare e tenerissimo tra un uomo e un bambino è frutto di uno sguardo che si è spinto molto lontano. Ma questa è appunto l’unica relazione possibile tra passato e futuro, ove è racchiusa l’ultima gemma di umanità che sia ancora rimasta.

Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non ci succederà nulla di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

Sì. Perché noi portiamo il fuoco… (ib., p. 64)

 

L’uomo e il bambino procedono nella loro marcia tremenda verso il mare.

Il bambino tracciò col dito (sulla cartina) la strada fino al mare.

È blu?

Il mare? Non lo so. Una volta lo era. (ib., p. 138)

 

Il padre adempie fino all’ultimo al suo compito. La protezione nei confronti del figlio è implacabile. S’ingegna oltre ogni umana energia, per trovare i mezzi che li possano far sopravvivere: cibo, vestiti, acqua. Gli oggetti dei quali si serve per questa eroica sopravvivenza sono nominati uno ad uno, descritti in dettaglio. L’uomo li manipola con cura, li domina, li piega alle esigenze sue e del bambino. Paradossalmente McCarthy si sofferma con certosina precisione sulla descrizione delle cose ma tralascia di descrivere i tratti dell’uomo. Ha forse senso dare immagine ad un calco di creta? Ma l’ostinazione che lo contraddistingue rammenta la ferocia di un lupo pronto a straziare, dilaniare, distruggere chiunque possa mettere in pericolo la vita del fanciullo.

I due sopravvissuti raggiungono infine il mare. Non è blu. Ma questo, l’uomo se lo aspettava.

C’è sì, il rumore di risacca che lui ricorda e che per il figlio è un rumore nuovo. Non ci sono uccelli all’orizzonte, non un gabbiano. Soprattutto non c’è il profumo del mare.

Ma è lì che dovevano giungere. All’origine del creato. Al mare.

 

Il compito è stato assolto. L’Uomo ha dato tutto il suo amore. Gli spetta la consolazione di morire.

Guardati intorno, disse. Non c’è profeta nella lunga storia della terra a cui questo momento non renda giustizia. Di qualunque forma abbiate parlato, avevate ragione… (ib., pag. 211)

È il momento del commiato: il bambino lo sa, non sono necessari grandi discorsi.

Voglio restare con te.

Non puoi.

Ti prego.

Non puoi. Devi portare il fuoco. (ib., pag. 215)

 

Renata Adamo

 

 

Cormac McCarthy, nato nel Rhode Island nel 1933, è cresciuto nel Tennessee, dove ha frequentato l’università abbandonandola due volte prima di entrare nel ’53 nell’Air Force e rimanervi per quattro anni.

Attualmente vive a El Paso, in Texas. Nel catalogo Einaudi sono disponibili: Il guardiano del frutteto, Figlio di Dio, Il Buio fuori, Meridiano di sangue, la trilogia della frontiera (vincitore del “National Book Award”) e, ancora, Oltre il confine e Non è un paese per vecchi, portato sugli schermi dai fratelli Coen.

Con La strada (Einaudi, 2007) ha vinto il “Premio Pulitzer” 2007.


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