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NNI 24. Maurizio Cometto (Cuneo, 1971)
Maurizio Cometto
Maurizio Cometto 
23 Giugno 2010
 

Maurizio Cometto è nato a Cuneo nel 1971. Il suo primo romanzo edito è Il costruttore di biciclette (Il Foglio Letterario, 2006), introdotto da Valerio Evangelisti, che giudica Cometto uno dei migliori autori italiani di narrativa fantastica. Nel 2008 Il Foglio Letterario (www.ilfoglioletterario.it) ha pubblicato - nella prestigiosa collana Fantastico e altri orrori diretta da Vincenzo Spasaro - una raccolta di taglio calviniano intitolata L’incrinarsi di una persistenza e altri racconti fantastici. A settembre 2010 uscirà il nuovo romanzo di Cometto: I raccoglitori di sogni, destinato a continuare la saga di Magniverne - il piccolo paese di provincia teatro di eventi fantastici e orrorifici - iniziata con Il costruttore di biciclette. Noi la pensiamo come Valerio Evangelisti che su Cometto ha dichiarato: «Se mi chiedessero, a bruciapelo, qual è l’autore italiano di narrativa fantastica che preferisco, risponderei Maurizio Cometto». Cometto è laureato in Ingegneria Meccanica e vive a Collegno. Ecco un suo raconto…

 

Gordiano Lupi

 

 

 

Insonnia

 

 

Trascorsi l’infanzia e la prima giovinezza in campagna, e devo dire che non ebbi mai problemi di insonnia. Poi fui costretto, per motivi di lavoro, a trasferirmi in città. Qui, chissà perché, non riuscivo a prendere sonno.

Decisi di crearmi un’immagine mentale capace di indurmi alla calma; un’immagine che ricordasse i luoghi dov’ero cresciuto. Appena infilato sotto le coperte, mi figuravo nella mente una verde pianura al sorgere del sole, circondata da dolci colline.

Inizialmente la cosa funzionò: subito cadevo addormentato. Poi l’immagine cominciò a modificarsi. Comparve una specie di recinto, seguito poco dopo da persone, forse muratori, che misero su un piccolo cantiere. Erano figure molto sfumate, come delle ombre furtive. Non riuscivo a controllarle, benché mi sforzassi; erano totalmente al di là della mia volontà. E una notte l’immagine si fece più nitida; i muratori non c’erano più: avevano terminato il loro lavoro. Nel recinto era sorta una bassa costruzione in pietra, molto allungata. Doveva essere una stalla, o qualcosa del genere.

Nelle notti successive non chiusi occhio; vedevo questo recinto, e questa stalla all’interno del recinto, e non riuscivo a capire a che cosa servissero. Soprattutto, mi era impossibile ripristinare l’immagine d’origine; con essa comparivano, inesorabilmente, il recinto e la stalla. L’insonnia mi stava sfiancando, ma non sapevo come fare; l’unico espediente che aveva funzionato, purtroppo, era compromesso irrimediabilmente.

Poi, una notte, vidi la pecora. La scorsi subito, non appena mi sintonizzai con l’immagine mentale. Era nel recinto, vicino all’ingresso della stalla; la quale, dunque, si rivelava essere un ovile. La pecora mi fissava inquieta, e faceva delle strane smorfie. Ma ciò che mi colpì fu questo fatto: era punzonata; portava cioè appiccicati due “manifestini”, sui lati opposti del corpo, su cui era tracciato il numero uno.

Si trattava di contare le pecore. Il mio cervello, in maniera indipendente e a mia stessa insaputa, aveva elaborato il più classico dei metodi antiinsonnia. Condussi la pecora fuori dal recinto, proprio come immaginavo si dovesse fare. Subito scomparve alla mia vista. Ma vicino all’ovile già se n’era materializzata un’altra, punzonata col numero due. Feci uscire anche quella. Fu il turno della numero tre, che aspettava brucando pigramente; anch’essa, una volta all’esterno, sparì dall’immagine mentale.

Uscivano una alla volta, disciplinate e composte; e, sempre una alla volta, io le conducevo fuori dal recinto. Arrivai a quota trentasette; poi non ricordo più nulla, perché caddi addormentato.

Il metodo pareva efficace. La seconda sera ne contai quarantasette, per esempio; la terza ventinove, la quarta cinquantuno, la quinta - un sabato notte, eran già le due - soltanto diciassette. E via di questo passo. Non le vedevo uscire dall’ovile, le pecore, ma sapevo che venivano da lì; ne compariva sempre e soltanto una alla volta, tanto che pareva che all’ingresso fosse stato applicato un contagocce. Ed erano tutte uguali, tranne per il numero; ogni notte si ricominciava daccapo: uno, due, tre e così via.

La mattina aggiornavo il conto globale. Quante ne potrà contenere l’ovile, mi chiedevo? Perché ero sicuro che, pur trattandosi di una fantasia, non poteva avvenirvi nulla di “illogico”; e pertanto il numero di pecore doveva essere finito.

Una volta mi parve di udire un rumore. In totale ero giunto a settecentosessanta; stavo procedendo alla solita conta quando, d’un tratto, avvertii una specie di lamento balbettante. D’istinto aprii gli occhi, ma la stanza era vuota. M’imposi d’ignorare il fenomeno; contai settantaquattro pecore, dopodiché mi addormentai.

La notte successiva fu lo stesso; questa volta il lamento era più distinguibile, e si ripeteva a intervalli di trenta secondi. Capii che si trattava di un belato, non senza una certa inquietudine. Cosa stava succedendo?, mi chiedevo. Contai ben centoventinove pecore prima di addormentarmi.

Ovviamente la cosa peggiorò. Appena richiamata l’immagine mentale, ventiquattr’ore dopo, fui investito da un concerto di belati. Erano simili a quello della notte precedente, ma meno fievoli, e soprattutto molti di più. Li udivo tutt’intorno a me, come se mi trovassi nel bel mezzo di un gregge di pecore; e avevano un tono lamentoso, querulo: come se implorassero me, proprio me, di aiutarle o di salvarle.

Vicino all’ovile notai la solita pecora, contraddistinta dal numero uno. Ne fui rassicurato. Decisi di ignorare i belati e di procedere come sempre. Giunto alla diciassettesima, però, fui costretto a fermarmi; e non perché mi fossi addormentato, bensì perché, in attesa nel recinto, non c’era più nessuna pecora. L’ovile s’era svuotato.

Aprii gli occhi, accesi la lampada e presi il notes dal comodino. La sera precedente ero arrivato a quota novecentottantatre. Dunque l’ovile ospitava mille pecore, pensai. Soddisfatto di quella cifra, tanto importante e significativa, scrissi “1000” a caratteri cubitali, sottolineandolo tre volte. Poi mi rimisi giù, chiusi gli occhi e ritornai all’immagine. La pianura, il recinto e l’ovile... vuoto.

I belati mi inquietavano, impedendomi il sonno. Li udivo a destra e a sinistra, in alto e in basso, davanti e di dietro. Mi giravo da una parte, mi giravo dall’altra, niente da fare: quelle maledette non la smettevano. Non chiusi occhio fino all’alba. E la notte seguente fu ancora peggio: i belati s’erano accresciuti, sia di numero che d’intensità.

Scoraggiato cancellai l’immagine, sperando che ne seguissero la sorte. Non fu così. Aprii gli occhi e scesi dal letto. Feci un giro della camera, mi fermai alla finestra. Andai in cucina, sgranocchiai qualche grissino; poi in bagno, dove sostai davanti allo specchio. Niente da fare: i belati mi seguivano. Come fossi stato il pastore di un vociante ma invisibile gregge.

Fu solo qualche giorno dopo che capii ciò che stava succedendo. Sempre con quel coro in sottofondo ritornai all’immagine mentale. Era come al solito: le colline, la verde pianura, il sole all’orizzonte, e infine l’ovile e il recinto. E d’un tratto, con mia grande sorpresa, fuori di quest’ultimo notai una pecora che stava pascolando. Era punzonata col numero uno. Si voltò per guardarmi e cominciò a belare astiosamente. Fui preso all’istante da un terribile senso di colpa. Capivo che si attendeva qualcosa da me, e intuivo che mi stava accusando di un ritardo.

Compresi tutto. Quei belati erano le pecore che avevo condotto fuori; esse s’erano disperse all’interno della mia testa, e attendevano con ansia di esser riportate all’ovile. Come avevo potuto essere così incurante?

In fretta aprii il recinto e vi feci entrare la pecora. Subito essa andò a piantarsi sulla soglia dell’ovile. Ma là fuori, belante e disperata, già era comparsa la numero due; la condussi nello spiazzo, il quale era già vuoto: la numero uno era entrata nell’ovile. Fuori attendeva la numero tre: la raggiunsi e proseguii con il lavoro. E mi parve di avvertire, nel concerto di belati, una nota di sollievo.

Feci rincasare quarantaquattro pecore; dopodiché non ricordo più nulla: mi ero addormentato.

Continuai con il lavoro nelle notti successive; come per il “viaggio d’andata”, tenevo il conto globale delle pecore. E intanto i belati diminuivano di numero e d’intensità, finché ben presto non scomparvero del tutto.

Giunse la notte decisiva. Ero a quota novecentottantadue; stando ai miei calcoli, con l’ingresso della diciottesima l’ovile si sarebbe completato. Arrivò la diciassette, la condussi dentro. Mancava la diciotto. Fuori del recinto, però, non si scorgeva nulla. Attesi tutta la notte, ma essa non venne. Ne sono rimaste novecentonovantanove, pensai. Novecentonovantanove. Una, evidentemente, aveva smarrito la strada del ritorno; e doveva aver trovato la morte da qualche parte nella mia testa.

Da allora è sempre così. Conduco le pecore fuori dal recinto, dalla prima all’ultima; attendo qualche giorno, finché non ne avvisto una; e dalla prima alla penultima, le riconduco dentro. Dalla prima alla penultima, già. Perché ogni volta ne perdo una.

Qualche istante fa ho condotto fuori l’ultima pecora; ultima intesa in senso assoluto: infatti m’è rimasta soltanto più lei. Chissà se farà ritorno? Oppure, come le altre 999, troverà la morte da qualche parte nella mia testa?

Sento il sonno arrivare, puntuale e inesorabile. Una cosa non capisco: perché tutta questa gente intorno al mio letto?

 

Maurizio Cometto


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