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Andrea Gratton. Dio benedica il 1962!
23 Giugno 2012
 

Rio de Janeiro, 19 gennaio 1983

 

Mané non ha ancora cinquant’anni, ma ne dimostra almeno settanta. Si muove di bar in bar per le strade di Rio de Janeiro, in una specie di odissea personale che dura ormai da due decenni. Barcolla vistosamente, Mané, e scrocca bicchierini in cambio di aneddoti, in una città afosa e umida come una prigione a cielo aperto. Vive a casa mia da un paio di giorni e mi ha assicurato che non ci resterà a lungo. L’ho incontrato in un qualche bar di Rio, in una sera in cui il lavoro non sembrava volerne sapere di decollare. Non aveva un posto dove passare la notte e aveva dormito da me. Mi disse che era senza soldi, io risposi che non ce ne era bisogno. Non servono i soldi, Mané, avevo aggiunto, io sono come la protagonista di “Un tram chiamato desiderio”: ho sempre confidato nella gentilezza degli sconosciuti. Tanto bastava.

Così Mané si era trasferito a casa mia. Usciva quando uscivo io, di notte. Il mio è un lavoro bastardo, ma anche quello di un alcolizzato lo è. La notte di Rio sa essere tanto cattiva quanto appiccicosa, ma quando vivi ai margini le zanzare e i malintenzionati passano in secondo piano. Al mattino lo trovavo fuori dall’uscio di casa, ubriaco fradicio. Mi chiedeva di entrare, con gli occhi liquidi, da indio meticcio. Perché questo Brasile è una sputacchiera di razze e civiltà, e siamo tutti meticci di fronte al grande Cristo Redentore che domina Rio, con le sue braccia aperte, come se sapesse già che tutti i suoi figli sono figliol prodighi in potenza, ma peccatori per necessità. Si buttava a letto, Mané, mentre io mi distendevo sul divanaccio unto della cucina. Non voleva dormire, però. Piuttosto parlare. E parlava, Mané. Dio, quanto parlava. Mi diceva che aveva avuto decine di figli, e chissà quante centinaia di donne. Doveva esser stato un calciatore famoso, o qualcosa del genere. Io, però, non capisco nulla di calcio, allora gli dicevo, sì, Manè, è proprio così, ma in fondo nemmeno gli credevo. Con quelle gambe sgraziate, una più lunga dell’altra, che quasi camminava a stento, e non capivi se era colpa dell’alcool o della poliomelite (e della malnutrizione) che gliele aveva lasciate in dono. Sono sei centimetri, diceva Mané. Tu hai le mani piccole, aggiungeva. Guardati il palmo: quello è lo spazio che c’è tra la mia gamba destra e quella sinistra. E davvero era visibile lo spazio tra le due gambe di Mané, che camminava tanto sgraziato da sembrare un ballerino di quarta categoria intento in un’improbabile esibizione. Ma se sei stato un calciatore famoso, Mané, gli avevo chiesto un paio di volte, com’è che non hai più un soldo, o una maglia, o un trofeo, o una foto? Lui apriva le mani e i grandi occhi neri, sorridendo. Le mie mani non sono fatte per stringere le cose, diceva. Dio mi ha dato solo i piedi, il resto è nulla.

Eppure sapeva ben stringere i bicchieri di Cachaça, Mané, nonostante tutti gli acciacchi che gli mordevano il fegato e i polmoni. A volte, quando nell’uscire lo trovavo appisolato, gli lasciavo una bottiglia di Cachaça sul tavolo. Al ritorno, poi, me lo ritrovavo di nuovo sull’uscio, ma della bottiglia nessuna traccia. Mané non diceva nulla. Non mi ringraziava per la bottiglia, né affrontava l’argomento. Era il nostro segreto e Mané sembrava custodirlo come un bambino. Un bambino di cinquant’anni, però, ubriaco e barcollante, che guardava il mattino di Rio de Janeiro e il Cristo Redentore, lì sul monte Corcovado, come a dire “prepara quelle grandi braccia, Cristo mio, che tra un po’ tocca a me”. Dio benedica il 1962, diceva spesso Mané, in preda ai fumi dell’alcool. Non sono mai stato così forte come nel 1962, ripeteva. Che mi marcassero in due, in tre, in quattro, che mi abbattesse la febbre, o il freddo, o questa gamba di sei centimetri più corta. Che mi appesantisse la Cachaça, o che mi togliessero il compagno più forte. Non potevano fare nulla contro di me, nel 1962. Ero come una furia cieca: io puntavo il difensore, con il pallone appiccicato alle scarpe di cuoio nero, e andavo. Se i difensori erano due, passavo loro in mezzo. Se erano tre, tornavo indietro sui miei passi, e gli facevo vedere il pallone quel tanto che bastava per confonderli. La caduta a destra, il piede che sembra cedere, la gamba che affonda. Poi il pallone che rientra, e scompare, che se mi avessi visto avresti chiesto “dove diavolo l’hai messo quel pallone, Mané?”. E dove volevi che fosse? Era tra i miei piedi, e da lì partiva per incrociare il piede dei miei compagni. Perché il Dio del calcio me lo ha sempre detto che a fare gol sono capaci tutti. Farli fare è il difficile! E Mané si buttava di nuovo sul letto, con i dolori che si facevano più forti, la tosse insistente. L’afa calda nei polmoni, e il sudore che era sudore alcolico, con la casa che sapeva quasi di canna da zucchero, tanto dolce era il sudore di Mané.

Sì, Mané, ma che gol ti resta, ora? gli chiedevo. Che palcoscenico calchi? La casa di uno come me, che sa solo che uscirà la notte, e riesce anche a essere lieto di avere questa certezza. Perché Rio è piena di persone che nemmeno hanno una speranza, Mané, e il tetto è un lusso, specialmente se lo puoi abitare da vivo. Magari con del cibo in cucina, e qualche bottiglia nel sottoscala, alla ricerca di qualche refolo di vento che non vuole saperne di arrivare. Ma tanto Mané non mangiava mai, e che l’alcool fosse caldo o freddo poco cambiava. I bar erano sempre bar, e l’afa opprimente. Non so nemmeno se vorrei un fegato nuovo, sbottava Mané, tanto cosa cambierebbe? Ho iniziato a bere a dieci anni, e per questo me ne andrò al Redentore. Mio padre è morto in questo modo, mio nonno è morto in questo modo e, per quel che ricordo, anche il mio bisnonno è morto in questo modo. Anche se era forte e robusto come un guerriero, e mica aveva una gamba di sei centimetri più corta dell’altra! Sono io l’uccellino della famiglia, il Mané Garrincha fragile, che si accoccola su se stesso, e sa solo illuminare gli occhi per far passare un pallone al di là di un ostacolo. Ma che ostacolo duro, la vita! Che dribbling impossibile! Vorrei di nuovo avere cinque, forse sei anni, e tornare a quell’infanzia selvaggia, quando nuotavo nei fiumi verdi come campi da calcio e cacciavo i passerotti sugli alberi. I miei garrincha, che erano piccoli e minuti come me, e che come me si muovevano singhiozzando, sincopati. Quando il Brasile era il mio Brasile infinito, e con un doppio-passo l’avrei saltato senza troppa difficoltà. Senza pensare al fegato, alla gamba più corta, alla spina dorsale storta, o all’occhio che va dove vuole lui. Ma che, inevitabilmente, guarda sempre indietro, e mai fisso su se stesso. Mai fisso sul presente. Come quello degli animali. Quello dei garrincha. Quello del bambino selvaggio che ero.

Il terzo giorno Mané mi chiede di non andare a lavorare. Non sto molto bene questa sera, vieni con me al bar, dice. Cerco di spiegargli che già i soldi sono pochi, e che se iniziassi a saltar nottate, bevendo in sua compagnia, finirei presto sul lastrico. Ma lui insiste, e davvero sembra un bambino dalla voce dolce e supplichevole. Decido di seguirlo. Ci sediamo al bancone di un bar, e Mané ordina una bottiglia di Cachaça e due bicchierini. Molti avventori, compostamente, lo riconoscono e lo salutano. Ti ricordi del ’62, Mané? chiedono. E del ’58, ti ricordi del ’58 Mané? Ci hai anche lasciato un figlio in Svezia, Mané! E ti ricordi del 19 dicembre 1973, al Maracanã, Mané? C’ero anch’io tra quei centotrentunomila, e facevo il tifo per te, anche se eri già conciato maluccio. Mané sorride a tutti, con un sorriso accondiscendente. Qualcuno gli allunga un bicchiere, altri gli battono la spalla. C’è chi accenna a motivetti musicali. Chi gli mostra tatuaggi con stemmi di squadre di calcio, o ciondoli o collanine che dimostrano militanze sportive. La bottiglia di Cachaça va svuotandosi, e Mané la guarda come se stesse guardando la sua vita che si consuma. Che si svuota dentro di lui e, a ogni sorso, lo lascia più piccolo, più fragile, più bambino. Il caldo appanna la bottiglia di vetro, formando piccole goccioline di vapore acqueo sulla superficie. Mané le asciuga con la mano, in un gesto inutile che assume, però, i contorni della ritualità. Sai, dice, il primo bicchiere me l’ha dato mio padre. Diceva che ero gracilino, e che la canna da zucchero mi avrebbe rafforzato. Ci faceva tutto, mio padre, con la Cachaça. Per lui era come una specie di pozione magica, che poteva risolvere qualsiasi problema. Peccato che non abbia mai risolto nulla, se non la sua vita. La cirrosi se lo è preso, e l’ha portato prima dell’ora al Cristo Redentore. È questo il nostro cammino, amico mio, continua Mané, e non c’è da illudersi che vada diversamente. Se volevano che le cose andassero in un altro modo, al Redentore dovevano fare le braccia chiuse, conserte. Allora sì avrei capito che la soluzione è la rinuncia, che l’unico modo di lottare è negare se stessi. Ma a Rio la sapevano lunga, e al Redentore han fatto le braccia aperte. Come al Cristo crocifisso. Senza croce, però. Ecco, io penso che siamo noi i crocifissi, e non il Cristo. Così, quando andremo incontro al nostro destino e troveremo il Redentore, faremo il paio con lui. Noi con le braccia aperte perché inchiodate alla nostra stessa croce, lui con le braccia aperte per accoglierci. Come due ingranaggi che si incontrano e si sommano per produrre un nuovo movimento.

Mané rimane qualche secondo a contemplare la bottiglia di Cachaça. O forse a riflettere su ciò che ha appena detto. La bottiglia è finita, e anche le sue parole. Il silenzio è denso come l’aria calda di Rio. Se allungassi le mani, quasi lo potrei toccare. Vado a farmi offrire un’altra bottiglia dal barista, dice Manè alzandosi in piedi, però prima devo pisciare. Si avvicina barcollando al bagno ma, nel farlo, urta un cliente, che fa cadere il contenuto del suo bicchierino a terra. Vecchio stupido alcolizzato, dice il cliente a Mané, e deve essere un forestiero, perché nessuno in quel bar si rivolgerebbe a Mané in quel modo. Guarda cos’hai fatto! continua indicando il bicchierino vuoto, e il contenuto sul pavimento. Se non sei in grado di usare quei due piedi da ubriacone, vedi di startene seduto e di farti portare il pappagallo per pisciare. Mané fissa con occhi da indio l’uomo che lo sta insultando. Tutti i clienti del bar sono girati verso di loro, sconvolti dal fatto che uno sconosciuto stia insultando Mané Garrincha, la gioia del popolo. Mané abbozza un sorriso. Lancia in aria il bicchiere, dice allo sconosciuto. Questi esita un po’, non capendo il significato della richiesta. Lancia in aria il bicchiere, continua Mané sorridendo, lancialo verso di me, a quest’altezza! Allora lo sconosciuto lancia in aria il bicchiere, in direzione di Mané, e tutti sono già pronti a vederlo cadere e farsi in mille pezzi. Mille schegge di vetro, come le mille tribù del Brasile. Mané, però, blocca il bicchiere con il collo del piede, con un movimento veloce. Inimmaginabile per un uomo della sua corporatura, per di più ubriaco. Ma il bicchiere non le sa tutte queste cose, e se ne sta lì, in equilibrio sul collo del piede di Mané, appiccicato a quelle scarpe nere e cenciose dalle suole consumate. Mané inizia a palleggiarlo un po’, passandolo di piede in piede, bloccandolo all’interno con dei tocchi morbidi, quasi a carezzarlo. Poi lo lancia di nuovo a mezz’aria con il piede sinistro, riprendendolo con il collo del destro. Si ferma così, Mané, con il piede destro alzato, a sorreggere un bicchiere di vetro. Sembra un fenicottero, Mané, o forse uno di quegli uccellini, i suoi garrincha, in fase di riposo. L’aria è, se possibile, ancor più densa. Guarda, dice Mané, sorridendo allo sconosciuto. Il piede destro si sposta velocemente verso l’esterno, e il bicchiere sembra essergli incollato addosso. Anzi, sembra che sia a sua volta una parte del piede di Mané. Qualcosa di indivisibile dal suo corpo. Il bicchiere rotea seguendo il movimento di Mané, il quale accenna ad un paio di finte, quasi a voler distrarre lo sconosciuto. Li ho lasciati sul posto così, Rojas e Contrera, continua Mané, Dio benedica il 1962! Quel 1962! Poi ho messo al centro per Vavà, e lui ha fatto tre a uno. Nel pronunciare queste parole, Mané scarta di nuovo di lato, e lascia partire il bicchiere rasoterra, con un colpo preciso ma dolce. Il bicchiere rotola indisturbato sul pavimento, fino al battiscopa della parete. Lì si ferma, continuando a piroettare su se stesso per qualche istante come una trottola. Ora, conclude Mané guardando lo sconosciuto, se non ti dispiace, vado a pisciare.

Quella sera del 19 gennaio del 1983 fu l’ultima sera in cui vidi Mané Garrincha. Usciti dal bar, dopo l’ennesima bottiglia di Cachaça, Mané mi chiese di chiamargli un taxi perché voleva tornare nella sua vecchia casa. Lì aveva una moglie, o qualcosa del genere, che l’aspettava da tre giorni. Forse è in pensiero, aggiunse. Non si sentiva affatto bene, Mané. Vomitò un paio di volte aspettando il taxi, e tossì forte, nell’afa della sera di Rio. I suoi polmoni suonavano come due grossi otri di pelle, gonfi di liquido fino all’orlo. Sai, mi disse prima di salire sul taxi, quand’ero piccolo e andavo a caccia di garrincha, mi immaginavo spesso che esistesse un’isola tutta per loro. Un’isola piena di garrincha, dove gli uccellini non facessero altro che volare e cinguettare tutto il giorno. Allora io li avrei cacciati per giocare, liberandoli subito, una volta presi. Mi sarebbe bastato sfiorare le loro piume soffici, punzecchiarmi le dita coi loro piccoli becchi aguzzi. Chissà se esiste davvero l’isola dei garrincha. In ogni caso, se davvero esistesse, ormai non conta più. Sono troppo vecchio per dare la caccia ai garrincha! Non sei troppo vecchio, Mané, gli dissi, hai visto come hai lasciato sul posto quello sconosciuto? Già, disse Mané, ma lasciar sul posto un avversario è una cosa. Catturare quegli astuti uccellini è un’altra. Le tue mani non sono fatte per stringere, Mané, Dio ti ha dato i piedi, ricordatelo. Mané mi sorrise da dietro la portiera del taxi, dando un ultimo colpo di tosse. Poi il taxi partì, e mi lasciò lì, solo, in una Rio de Janeiro calda e soffocante. Allora alzai gli occhi al cielo, verso il monte Corcovado. Il Cristo Redentore era sempre al suo posto. Le sue braccia, se è possibile, mi sembrarono ancora più aperte. Più accondiscendenti. Più protettive.

 

Andrea Gratton


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