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Giuseppina Rando. Il 'pensiero vivo' di John Donne (una ri-lettura)
31 Marzo 2015
 

Rileggere i classici, a volte, aiuta a stabilire un diretto rapporto con il presente più di quanto non lo riescano a fare le opere di autori contemporanei, anche se, come scriveva Italo Calvino, «leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita, che non conosce tempi lunghi, il respiro dell’otium umanistico».

Eppure in questo nostro tempo, dove i valori scompaiono progressivamente, la poesia del poeta inglese John Donne (1572 – 1631) potrebbe ancora esercitare una funzione, quella di restituire vitalità al pensiero, valore all’armonia universale, significato alla poesia.

Pensiero vivo quello di Donne perché, al di là di quanto hanno scritto su di lui i vari critici e studiosi, il poeta ha avuto la capacità di usare il pensiero per cogliere l’essenza della realtà.

Si sa, i poeti, più che per se stessi scrivono per gli altri, e c’è chi li paragona ai profeti, custodi di messaggi da rendere noti al mondo e di messaggi nella poesia del poeta inglese ve ne è più d’uno.

Definita “poesia metafisica”, quella di Donne si differenzia da quella dei suoi contemporanei Andrew Marvell e George Herbert, e può considerarsi, per molti aspetti, anche poesia psicologica e sentimentale, poesia del “nudo cuore pensante”, raziocinante ed appassionata con un preciso ideale, la ricerca della verità. Ma come?

Guardando alle cose e alla realtà tutta con occhi nuovi per dare ad esse un significato.

Vissuto in tempo di transizione, tra il tramonto della fiorente epoca elisabettiana e l’inizio della rivoluzione scientifica (che aveva come protagonisti Copernico, Galileo, Keplero), John Donne si trovò in bilico tra opposte tendenze: pensiero medievale e nuova scienza, rinascimento e riforma, cattolicesimo e protestantesimo, amore umano e amore divino, peccato e morte, uomo e Dio.

Ansie e incertezze che determinarono la personalità del poeta, ben descritta da Cristina Campo nell’Introduzione alla traduzione di Poesie amorose e Poesie teologiche:

«[...] Tutta la giovinezza di John Donne trascorrerà in quell’atmosfera di obbrobrio e esaltazione, di mortale segretezza e di doloroso raffinamento spirituale che è quella, in ogni tempo, delle comunità religiose costrette, martoriate per lunghi anni nel corpo e nello spirito».1

Inoltre la sua formazione intellettuale subì le imposizioni della società quel tempo che egli, però seppe ben concertare per salvaguardare la propria libertà interiore e di pensiero. A 28 anni si innamorò e sposò segretamente Anna More, figlia di quel Sir Thomas che gli fece pagare il matrimonio con il carcere. Un amore che durò diciassette anni, fino alla morte dell’amata, ma che fu allietato da dodici figli.

Per necessità economiche, si umiliò e divenne poeta di corte, dove «Una malattia, una morte […] gli sarà pretesto per l’una o l’altra fuga sulla morte: sua, dei suoi, del mondo che gli è caro. Chi piange, in quegli anni Donne? Fin dai tempi di Omero le schiave di Achille hanno imparato a piangere col pretesto di Patroclo / ciascuna il proprio affanno».2

Donne piange, in un primo tempo, la sua angoscia, quella che scaturisce dal conflitto interiore e che gli ha fatto scrivere: «quando l'angoscia mi assale, penso che possiedo le chiavi della mia prigione, e nessun altro rimedio si presenta con altrettanta immediatezza al mio cuore della mia stessa spada. Spesso questa convinzione mi ha indotto a interpretare con spirito caritatevole il gesto di coloro che si danno la morte» (dalla Prefazione a Biathanatos).

Non è questa esaltazione del suicidio, ma rivolta verbale contro le ingiustizie di quella società imbalsamata.

In seguito piangerà per la morte dell’amatissima moglie Anne. La scomparsa della compagna segna indelebilmente la sua psiche, il suo animo. Da quel momento penserà alla morte in modo ossessivo.

Quando Giacomo I (che vedeva in lui le capacità di ministro e di vigoroso predicatore) lo sollecitò ad entrare nella carriera ecclesiastica, Donne accettò perché capì che in quell’ambiente avrebbe potuto superare la propria crisi esistenziale, l’aridità interiore che lo attanagliava e nello stesso tempo avere la possibilità di uscire dalle ristrettezze economiche. Una scelta di comodo indubbiamente. Nel 1621 fu nominato decano di S. Paolo a Londra, e quella gloria a cui egli aspirava da giovane, con tutta la sete d'un uomo del Rinascimento, l'ottenne da vecchio non attraverso imprese guerresche e cariche di stato, ma attraverso la carriera ecclesiastica.

«[…] negli ultimi anni di Donne, una nuova e diversa polarità. Alla riprovazione momentanea di questo o quel costume cattolico - la vita monastica per esempio - si alternano, sempre più e in sempre più splendide forme, quelle meditazioni puramente ascetiche… Peccato e morte divengono la nota dominante, il sottofondo di tutti i Sermoni».3

È, il poeta, come calamitato da quel terribile e pauroso avversario: la morte. Non sa, né vuole arrendersi e allora si sgancia dai vincoli dello spazio - tempo, quelli che lo legano al fisico, al contingente, ed entra nel soprasensibile, dove (sogno o aspirazione?) immagina di affrontare il duello finale con la morte: Death's duel

Morte, non andar fiera se anche t’hanno chiamata
possente e orrenda. Non lo sei.
Coloro che tu pensi rovesciare non muoiono,
povera morte, e non mi puoi uccidere.
Dal riposo e dal sonno, mere immagini
di te, vivo piacere, dunque da te maggiore,
si genera. E più presto se ne vanno con te
i migliori tra noi, pace alle loro ossa,
liberazione dell’anima. Tu, schiava
della sorte, del caso, dei re, dei disperati,
hai casa col veleno, la malattia, la guerra,
e il papavero e il filtro ci fan dormire anch’essi
meglio del tuo fendente. Perché dunque ti gonfi?
Un breve sonno e ci destiamo eterni.
Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai.

Dio non permetterà all’uomo, sua creatura, di essere inghiottito dal nulla. Dio stesso per bocca dell’Apostolo delle genti disse: «È necessario che questo essere corruttibile rivesta l’incorruzione e questo essere mortale rivesta l’immortalità. […] Allora si compirà la parola che è stata scritta: La morte è stata inghiottita in vittoria (Is. 25,8). Dov’è, morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?».4

La poesia di Donne porta dentro i pensieri di chi crede nell’eternità, di chi nutre il desiderio di sopravvivere a quella morte che – quotidianamente – in noi nel respiro vive e nel cuore nasconde il nido…

Un messaggio di fede e di speranza: dalla morte la Vita.

Pensiero vivo ancora nella Meditazione XVII “Nessun uomo è un’isola”: un grido d’amore che esprime la massima interiorità nella consapevolezza dell’irrinunciabile legame con gli altri, senza i quali, siamo noi i primi a morire.

Nessun uomo è un’isola

completo in se stesso;

ogni uomo è un pezzo del continente,

una parte del tutto.

Se anche solo una nuvola

venisse lavata via dal mare,

l’Europa ne sarebbe diminuita,

come se le mancasse un promontorio,

come se venisse a mancare

una dimora di amici tuoi,

o la tua stessa casa.

La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,

perché io sono parte dell’umanità.

E dunque non chiedere mai

per chi suona la campana:

essa suona per te.

Un testo altamente introspettivo che invita a riflettere sulle dinamiche relazionali, cardini e fondamenti della vita stessa: se essi vengono meno, sarà un danno irreparabile alla salute mentale e fisica.

Eppure oggi si tende a rinchiudersi in se stessi, a diventare isola, si comunica poco. Si rimane soli anche nei luoghi affollati. Anche i componenti di una famiglia spesso sono isole; in ogni ambiente di studio o di lavoro non di rado ci scopriamo isole. Ognuno vive in un proprio universo, ognuno ha un’esistenza a se stante, nascosta a tutti gli altri.

Oggi, più che in passato, l’individualismo sembra essere l’unico presupposto della nostra società, la base su cui sono costruite l’economia, la politica, le istituzioni, le nostre vite.

Sarà forse questo il motivo principale dell’attuale crisi, che non è solo crisi economica, ma anche esistenziale?

Il pensiero vivo di John Donne torna allora presente, torna a invitarci ad uscire dall’egoismo che ci stritola e guardare all’altro da sé, all’umanità tutta.

Nessun uomo è un’isola e non solo sul piano strettamente politico-sociale, perché ciascuno di noi appartiene all’umanità tutta, fa parte integrante dell’Universo.

Lo comprese bene il Premio Nobel, Ernest Emingway che trasse ispirazione da questa meditazione per scrivere il famoso romanzo Per chi suona la campana dove il tema principale è appunto la morte affrontata serenamente per l’amico, per la società, per il bene della patria, nella consapevolezza estrema che ciascuno è una parte del Tutto.

E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te.

 

Giuseppina Rando

 

 

 

1 John Donne, Poesie Amorose Poesie Teologiche, a cura di Cristina Campo, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1971, pag. 7.

2 Ivi, pp. 9-10.

3 Ivi, pag. 10.

4 San Paolo, Lettere ai Corinzi (15,53-55).


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