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Scrivere della propria vita 
a cura di Barbarah Guglielmana
05 Marzo 2014
 

 

 

(...) Tra notizie allarmanti e cimici, qui nelle montagne convivono

il francese e il polacco, l’italiano chiassoso, l’ebreo assorto,

il serbo scismatico, febbricitanti e con i corpi piagati-,

nonostante tutto, vivono la stessa vita in attesa di una buona nuova

una bella parola di donna, un destino libero e umano,

[una fine irraggiungibile,

aspettando il miracolo. (...)

Rádnoti Miklós

 

 

Un nuovo appuntamento quello che è stato organizzato alla Casa della Poesia di Milano, con la collaborazione di A.M.A.T.A. onlus e con il patrocinio del Consolato Generale di Ungheria, in Largo Marinai D’Italia, giovedì 20 febbraio, dal tema Poesia contro il razzismo.

Ospite la memoria del poeta ungherese Miklós Radnóti (Budapest, 5 maggio 1909 – Abda, 10 novembre 1944). I suoi versi sono entrati come liquido e come cemento nella composizione delle mie vene, e sono ancora lì a farne una parte...

 

Dalla bocca dei buoi cola della saliva insanguinata,

gli uomini tutti orinano sangue,

il secolo è fetido, si presenta per nodi selvaggi,

su di noi soffia la morte abbietta.”

 

(Mohàcs, 24 ottobre 1944)

 

L’attore Franco Sangermano, con la sua voce calda e ferma, ha letto quei versi tradotti in quasi tutte le lingue del mondo, precedentemente urlati in sordina nei vari campi di concentramento dove il Poeta è stato deportato, versi appoggiati al lenzuolo della carta, dove ha passato le sue ultime ore di vita, anzi di sopravvivenza, che sono mesi di minuti interminabili e poi terminati, dove ha vissuto sulla sua pelle, e su quella degli altri deportati, il dolore fisico e quello più grande del cuore, che non si capaciterà mai dell’ingiustizia subita, e che non dovrà mai capacitarsene.

Tomaso Kemeny, poeta e tra i fondatori della Casa della Poesia milanese, introduceva la serata al richiamo di No More di Allan Poe, perché un grido di basta sia continuo, non solo per il giorno della Memoria, come non solo nel giorno degli innamorati ci si ama, come non sono nel giorno della festa della mamma e della festa del papà si fa il genitore, ma un NO MORE alle ingiustizie di ogni giorno e in ogni dove, di allora e di oggi. Di pochi giorni era la notizia di un altro poeta ucciso, il pacifista iraniano Hashem Shabani, che scriveva in arabo e traduceva la poesia farsi in arabo, attività considerata sovversiva nel suo paese ossessionato dalla minaccia del separatismo.

Le poesie lette di Rádnoti Miklós, provenivano in parte dalla pubblicazione Mi capirebbero le scimmie (Ed. Donzelli Poesia, 2009), altre dalla traduzione di Tomaso Kemeny, comprese alcune dal suo ultimo taccuino, e raccontano degli ultimi momenti di vita, come quello dove descrive la fine di un compagno, presagendo l’imminente sua stessa simile fine...

 

Gli piombai accanto, il suo corpo era rovesciato

ed era già rigido, come corda, quando schiocca.

Un proiettile nella nuca. -Ecco. Anche tu finirai così-

mi sussurrai- Calmo, stai fermo.

Dalla pazienza ora la morte fiorisce-

Der springt noch auf- (respira ancora)

suonò sopra di me.

Misto a fango sangue si seccò sul mio orecchio.

 

(Szentkiralyszabadja, 31 ottobre 1944)

 

Versi che a pieno titolo, usano espressioni che come non mai ho capito essere di appannaggio solo di certe situazioni, e non usabili e non mutuabili in viaggi immaginati, immedesimati in situazioni che non si conoscono veramente, che non possono neanche essere lontanamente paragonate a certe miserie. Rádnoti Miklós amava l’uomo al di là di ogni frontiera, e ha continuato ad amarlo fino alla fine, cercando di vedere al di là del male, al di là di ogni frontiera, così come questa grande e anche difficile lezione d’amore l’ha data Hetty Hilliseum.

 

Da qui a nove chilometri bruciano

le biche e le case,

e seduti ai margini dei prati muti

contadini fumano spauriti la pipa.

Qui ancora la minuta contadinella

increspa l'acqua appressandosi al lago

e chinato sull'acqua il branco di pecore

beve nuvole.

 

(Cservenka, 6 ottobre 1944)

 

Presenti alla serata l’Assessore alla cultura di Milano Filippo Del Corno, il Presidente del Pen Club Ungherese Géza Szocs, e il Console ungherese Istavàn Manno, che ha parlato «dell’importanza della memoria e della meditazione sulle forme di razzismo di oggi», questo sarà l’anno della memoria dell’Olocausto ungherese ci ha ricordato. Nella location della Casa della Poesia erano allestiti due poster, uno con la riva del Danubio a Budapest dove venivano fucilati gli ebrei, l’altro con il salice della sinagoga più grande del mondo: ogni foglia per ogni vita persa.

Sono seguite altre letture: uno scritto sul cimitero ebraico con le sue anime sepolte in Alter Jüdischer Friedhof di Luigi Cannillo, Tomaso Kemeny con i sogni dei morti e una dedicata a chi ha ospitato i rom di Pavia dopo l’ultimo sgombero, Amos Mattio con l’indifferenza di chi assiste e non dice nulla da Sinete parvolus, e il gruppo poetico La carovana dei versi con una performance che urlava «La storia si ripete, è giunta una nuova era», e con diverse poesie, fra tutte i versi che recitavano «io appartengo alla nazione umana» e «accanto ai miei vicini di casa».

A chiusura, e ad interpretazione di che cosa sia il razzismo, l’intervento della psicanalista lacaniana Adele Succetti, che lo ha spiegato secondo l’interpretazione di Lacan come un confronto con il corpo dell’altro che scatena l’aggressività, e concludendo – risollevandoci dalle ceneri, che la preziosità dell’altro può essere riscoperta dalla poesia e dalla psicanalisi.

 

(...) Paesaggio di casa che si cela! Ma c’è ancora una casa? Una bomba

non l’avrà colpita? E’ come quando ci arruolammo? Lo scremato

compagno di destra, quello a sinistra vedranno mai una casa? (...)


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