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Patrizia Garofalo. Degli esperimenti poetico-musicali di Paolo Diodati
(foto da www.settemuse.it > Gabriele D
(foto da www.settemuse.it > Gabriele D'Annunzio) 
14 Ottobre 2010
 

Scrivo poesie e altro. Forse questo mi ha aiutato a scoprire un’insospettabile vena poetica in Paolo Diodati, inizialmente conosciuto attraverso i suoi articoli scientifici e le sue divertentissime critiche agli articoli “scientifici” (il virgolettato credo che me lo imporrebbe lui) di Piergiorgio Odifreddi al quale ha dedicato, tra l’altro, l’indimenticabile “Odi caldi... odi freddi… lucida follia”.

Utilizzando i frequenti scambi epistolari e qualche telefonata, in queste note ho voluto bilanciare il suo scherzare su quelle che chiama le sue “innocenti evasioni dal mondo della fisica” con il mio essere seriosa, ulteriore ipotesi delle infinite possibilità della poesia di poter essere coagulo di esperimenti. È una bella prova che mi diverte e in realtà suggerisce in experior, la connotazione della parola tra due personalità diverse, cresciute in mondi totalmente diversi, per tanti versi addirittura incompatibili, ma che per i misteri della sensibilità e della reattività all’esperienza della vita, possono incontrarsi.

 

 

LA MEDIAZIONE CULTURALE IN PAOLO DIODATI

 

Il gluone* sta al segno come la parola alla voce. Con questa proporzione intendo parola come sostrato, nucleo generatore, genotipo, fondo oscuro e indistinto dell’espressione prima che venga alla luce ed insieme l’aleatorietà e l’infinita possibilità delle scelte espressive che questo attimo concede all’artista (su questo punto mi è stato utilissimo il confronto con il critico Matteo Veronesi).

Paolo Diodati li chiama esperimenti quelli di cui parlerò, ci ride su, spesso li offre con autoironia e provocazioni ludiche. Basti ricordare i due giudizi, antitetici, che ha scelto come premessa alla sua “pazzia” (parola sua) di musicare la Pioggia nel pineto:

Dal più bel verso scaturisce la più bella musica. (D'Annunzio)

Il musicista è forse il più modesto degli animali, ma anche il più fiero. È lui che ha inventato l'arte sublime di sciupare la poesia. (Satie)

O la sua consapevolezza dei rischi connessi al tentativo di dire qualche cosa di nuovo nella descrizione di uno dei più inflazionati temi di sempre: il contrasto notte-giorno e le sensazioni che accompagnano la visione del sorgere del Sole. Consapevole del rischio, ha scritto e musicato un pezzo, IL GRAN FUOCO, dal crescendo davvero coinvolgente, (finito nella versione inglese, non a caso, in una tesi in astrofisica).

 

In realtà la sua trasposizione pianistica de “La pioggia nel pineto” è un trasferimento dalla parola al suono riuscito e molto interessante per chi, nel corso dell’insegnamento, abbia provato quel disagio profondo che nasce ogni volta che si avverte l’insufficienza di una parola esplicativa del testo dannunziano, sempre inadatta a cogliere una musica di silenzi evocanti ed evocati dal miracolo delle note suggerite dalla pioggia. Il pianoforte distilla le gocce e connota i verbi di percezione che articolano l’originale scritto, distinguono i battiti del silenzio e rimandano suggestioni di fisicità miste alla sacralità della favola bella che tornerà a forma di poesia in altri “esperimenti” di Diodati. Inoltre nella novità della trasposizione musicale non dimentica la tradizione del testo letterario che è fedelmente riprodotto al pianoforte, anzi si sottolinea ancora di più “la voce dei nostri” che accompagna la mediazione culturale necessaria per continuare ad essere interpreti dell’oggi con la memoria di ieri.

 

È nel linguaggio che, Paolo Diodati, cerca appartenza sin dall’incipit di quell’intensa “La voce dei nostri” (definizione letta nelle considerazioni sul Giorno Internazionale della Lingua materna), col voluto e forte richiamo a Ignazio Buttitta, disperato difensore della sicilianità. «Potete pur privarmi del mio letto/ sedia, denti e tetto/. È niente./ ché tutto è riposto in tanti dolci suoni./ lingua che sei straniera,/ io si lo so, vorrei sempre distinguerti dalla mia,/ perché la mia non muoia» spinto dal desiderio di cura e protezione, di memorie infantili, di rinascita, di prima conoscenza del mondo e conquista, ormai indelebile, di commozione; la voce dei suoi, sono cantilene e dolcissime nenie di cui solo apparentemente ci disfiamo da grandi, ma «affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda/ che si smorza avvicinandoci e spingendoci sempre più a riva» emergono volti cotti dal sole, il vociare alla vendita del pesce che si identificano quasi in una pre-esistenza riafferrata che dona pace e familiarità. «in quella pace vengo a ritrovare/ casalingo e familiare, l’antico focolare». Proprio nella koinè tanto cercata dalla globalizzazione l’autore si augura che la torre di Babele resti ferma alla sua dannazione, dono di identità e non perdita. Riporto i versi sicuramente più incisivi di una spiegazione: «Perché non svaniscan le cime/ le vette dei romanzieri, dei poeti/ globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende/ un velo, un sudario, sul perdente. Lui spadroneggia e muore quel universo che ha cantato Dante a Dio/ muore pure l’Infinito, ché tradotto, non vive/ non è Infinito appunto».

Vicino all’uomo, la natura de “il Gran Fuoco”, altro bel “pezzo” di Diodati. «...notte nella notte/con pensieri amari», l’intensivo nell’incipit corrisponde al vuoto dei pensieri che nella notte, partorita dal buio sembra ancor più inabissare l’esistenza, «atomi di vita, briciole di tempo» seguirà subito dopo, evidenziando la piccolezza dell’uomo davanti all’infinito spazio-tempo ma anche la sua presa di coscienza e grandezza. Nello Zibaldone, Leopardi, nella “lingua dei nostri”, dichiarava la grandezza dell’uomo proprio nel momento in cui egli diventa conscio della sua finitezza (che questo concetto abbia informato il mio tema di lontana maturità nel 68, mentre scrivo, mi torna grato).

«...e ritrovo infine voi, stelle dell’Orsa/ ferme a ricordare un’eterna corsa»

L’attribuzione ossimorica alla costellazione “ferme… eterna corsa”, la rende compagna di viaggio, non indifferente al viandante ma custode di una missione sacra quale quella di attraversare la vita insieme, senza dimenticare l’inarrestabile fluire del tempo ma anzi di rimandarlo al cuore come archetipo del “prima di noi”. Non casuale appare l’uso della parola “tempio” posta alla fine della successiva quartina come implicita richiesta di accoglienza sacrale della vita e del tempo che di notte si sgrana in miliardi di atomi, di ammaraggi e di nuovi approdi verso un’isola paradigma del molteplice significante del vivere nel sorgere della coscienza che termina solo con la morte «dai nostri grandi radiotelescopi,/ protesi ad ascoltare l’infinito, non giungon che rumori che raccontano/ di nebulose…/ di universi isole/.. io cerco ancora chi ascolti la mia voce/ guarda quella luce ad est sbianca il cobalto/…l’aria si allarga/ là, dal mare che tremola/ lame rosse». Nel momento in cui risulta vano il tentativo di cogliere segnali intelligenti dal cosmo, l’intensa solitudine si squarcia in un illuminante enjambement che a grand’angolo dilata spazio e tempo e, fin dove arriva lo sguardo, coglie attimi di colori che sbiancano il cobalto a luce rosa che sale fino alle lame rosse, folgoranti bagliori respiranti passioni che salgono dal mare al cielo. La luce ha inghiottito le tenebre e il Gran Fuoco suona di speranza. Ne ascolto la musica che l’autore mi ha inviato e di cui ho goduto insieme ad un pubblico attento quando l’ho scelta come sottofondo ad una presentazione di poesia.

Diodati continuerà a parlare di esperimenti, io continuerò a scriverne e i “prossimi appunti” canteranno il mare.

 

Patrizia Garofalo

 

 

* Il gluone (dall’inglese glue, incollare) è una particella che tiene uniti i quark. È responsabile di “un incollaggio”, una forza, molto intensa. I quark sono particelle difficilissime da concepire e impossibili da vedere isolate.


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